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X-Men: Apocalisse

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VOTO: 7.5

Mutatis mutandis…

Nel variegato universo Marvel, gli X-Men occupano da sempre una sorta di “riserva indiana”, che non permette loro alcuna interazione con i supereroi tradizionali. Giustamente, perché essi non lo sono mai stati. Come ben sanno i cultori della materia i mutanti possiedono qualcosa in più che li rende inevitabilmente diversi, agli occhi della società cosiddetta normale. In qualche modo reietti. Quindi non possono far altro che unirsi, compattarsi tra loro per combattere “l’esterno” nei modi che abbiamo imparato ad apprezzare film dopo film – per rimanere in ambito cinematografico – della saga. Il salto di qualità che porta in dote quest’ultimo X-Men: Apocalisse è un elemento divisorio, del tipo emerso anche in Captain America: Civil War. Nel senso: cosa accadrebbe se uno dei più potenti mutanti mai esistiti sulla Terra – Apocalisse (ottimo Oscar Isaac), appunto, già presente nell’antica civiltà egiziana, come illustrato nello sfarzoso prologo – decidesse per la tabula rasa di un mondo da ricostruire e radunasse con sé altri mutanti scontenti, con il carismatico Magneto/Michael Fassbender in prima fila, allo scopo di instaurare un nuovo ordine? Più che il resoconto spettacolare di uno scontro all’arma bianca, che emerge solo nell’epilogo, X-Men: Apocalisse diventa così una sorta di viaggio nella psiche dei personaggi che lo animano, con ognuno dei mutanti dei due fronti a dover dimostrare, in primis a se stesso, per cosa sta lottando. E questa è la forza del film, poiché tutti i mutanti messi in scena affermano con nitore il loro diritto ad esistere, senza che uno dei due fronti possa essere etichettato con certezza, dal pubblico esterno, come giusto o sbagliato. Alla fine prevarrà il sentimento che li rende vicini agli umani, quello appunto della fratellanza. Pulsione che, paradossalmente ma non troppo, l’umanità intera sta invece perdendo, nel nome di un movimento contrario capace di donare uno spessore del tutto inusitato ad un “semplice” film di genere. Per questo motivo, l’ultimo capitolo delle loro avventure appare una sorta di film-catalogo completamente indifferente alle incongruenze logiche e temporali – e ce ne sono parecchie anche in questa occasione – che da sempre hanno caratterizzato l’intera saga. L’importante, per il regista Bryan Singer e lo sceneggiatore Simon Kinberg, è in tutta evidenza affermare lo status di appartenenza al consorzio umano attraverso un raffinato procedimento descrittivo dal sapore quasi shakespeariano, di tutti i mutanti che compaiono nel lungometraggio. Comprese quelle new entries, come ad esempio il Quicksilver interpretato da Evan Peters, le quali rappresentano un valore aggiunto e ben studiato nell’economia di un film in cui anche le apparizioni più brevi – quella di Wolverine/Hugh Jackman è una specie di cameo di forza folgorante, furioso riassunto della caratteristiche principali del personaggio – risultano alla fine assai significative. Rabbia, incertezza, disillusione ma anche slanci altruistici e dimostrazioni di affetto vengono ripetutamente mostrati nel film, soprattutto prendendo a riferimento il personaggio assai sfaccettato di Mystique/Jennifer Lawrence. Ricorda in fondo qualcosa, a proposito di come siamo fatti veramente noi esseri umani?
Nel far pendere dunque la bilancia chiaramente in positivo nel giudizio, c’è poi da sottolineare il totale controllo registico di Bryan Singer su meccanismi che ormai conosce alla perfezione: per questo e tanti altri motivi X-Men: Apocalisse si candida di prepotenza ad essere il capitolo, se non più riuscito, almeno maggiormente significativo dell’intera saga. A dispetto di una dilatazione temporale forse eccessiva della battaglia finale, il film lavora incessantemente sul duplice binario filosofico ed estetico, raggiungendo sia l’essenza interiore della numerosa “tribù” mutante che un’antologia di sequenze magnificamente girate in grado di ridefinire il concetto di tempo cinematografico. Tutt’altro che roba da poco, nell’ambito di un ciclo di opere capace di operare ogni volta quei cambiamenti indispensabili a raccontare sempre qualcosa, se non di completamente nuovo, perlomeno di diverso. Dove quest’ultimo aggettivo finisce non casualmente per combaciare alla perfezione con lo spirito interiore dei personaggi che lo popolano.

Daniele De Angelis

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