La signora nel fiume
Jenny è un giovane medico di base, che ha da poco rilevato uno studio medico da un dottore anziano. La vediamo subito, insieme al suo assistente, un giovane studente di medicina, auscultare la schiena di un paziente di età avanzata. E poi assistere un bambino in preda a convulsioni. In quell’attimo frenetico chiede all’aiutante di portare urgentemente un cuscino, ma questi rimane bloccato e la dottoressa dovrà ricorrere alla giacca della madre piegata per alzare la testa al giovane paziente che poco dopo si riprenderà. In questa non azione, apparentemente dovuta a un blocco per l’agitazione, si configura la chiave di questo nuovo film dei fratelli Dardenne. Proprio un’altra mancanza di reazione, per motivi banali e nemmeno spiegati, crea il motore ultimo del film. Una sera suona il campanello dello studio medico ma Jenny non apre la porta. Il giorno dopo la polizia la informa che il cadavere di una giovane donna è stato ritrovato nel vicino fiume. Si tratta proprio di quella ragazza, identificata dalla registrazione del videocitofono dello studio di Jenny, che aveva suonato, evidentemente cercando rifugio, in fuga da quello che sarebbe stato il suo carnefice. La dottoressa sarà ossessionata da quella che sembra una clamorosa sconfitta umana, per lei abituata a intervenire prontamente in situazioni di urgenza per salvare vite umane, e si improvviserà detective per cercare quantomeno di identificare quel corpo anonimo, per il quale la polizia sembra mantenere un atteggiamento di sostanziale indifferenza. Perché almeno la sua lapide porti incisa una scritta. Jenny è assillata da quell’immagine, da quel frame congelato prima della morte, di quella ragazza di colore. Ma nella scena del bloccarsi dell’assistente, troviamo anche tutto un cinema che allude a pregressi, ai non detti dei personaggi, tutti a loro volta sconosciuti, alle loro storie precedenti, alle loro situazioni famigliari, all’ambiguità delle loro situazioni e dei loro comportamenti.
I Dardenne – con La ragazza senza nome (in originale La fille inconnue), selezionato nel Concorso del Festival di Cannes 2016 – tornano ancora una volta negli anonimi non luoghi del circondario di Liegi, in quel fiume Meuse, dalle rive occupate da circonvallazioni urbane grondanti di traffico, che inghiotte tutte le loro storie. I due fratelli registi belgi hanno sempre tenuto uno sguardo a distanza, entomologico, freddo, sulle storie che hanno raccontato, sugli spaccati sociali di cui hanno voluto aprire degli squarci. Ora la loro osservazione si sposa appieno con quella di Jenny, medico che scruta i sintomi per capire quale patologia sia in atto. Che si trova catapultata improvvisamente ad affrontare un’attività di detection, secondo un archetipo del genere noir, che affronta con lo stesso rigore delle sue indagini mediche. Lei che conduce un laboratorio medico in una zona ormai di frontiera, che è uno spaccato sociale dell’Europa contemporanea. Dove aleggia la violenza, come quella del ragazzo che le sbraita contro perché si rifiuta di firmare falsi certificati. Dove passano per esempio due immigrati, uno dei quali ha una vistosa piaga sulla coscia e non vuole farsi ricoverare in ospedale perché non vuole esibire il proprio passaporto. Non importa, a Jenny, chi sia il suo paziente in quel frangente, e quali siano i problemi che possa avere con le autorità, sono cose che fanno parte della sua privacy e il suo unico approccio è quello della diagnosi medica. Non può che provare lei stessa empatia per quella ragazza morta sconosciuta, perché è anche lei un personaggio sconosciuto, di cui sappiamo pochissimo, anonimo come lo sono i personaggi dei Dardenne. Detective improvvisata che conduce un’inchiesta così come visita un paziente, sempre ansimando. Dietro la struttura narrativa della detective story, con tutti i suoi cliché, i fratelli Dardenne conducono una loro analisi sociale, danno un altro spaccato di un mondo senza speranza. Del resto chi può essere quella ragazza di colore se non una prostituta uccisa da un cliente, con il racket che cerca di coprire tutto per non averi intralci alla propria attività? Le cronache dei giornali sono piene di storie del genere. Il cinema dei Dardenne è una diagnosi cui non segue però una cura.
Giampiero Raganelli