Essere madri
Come sempre non lesina in ambizione il cinema di Milcho Manchevski. Il quale, per la sua ultima fatica Willow (cioè Salice) – presentata nell’ambito della Selezione Ufficiale alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma – recupera la forma corale che caratterizzò il suo lungometraggio più noto, quel Prima della pioggia che vinse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 1994.
Rispetto al film appena menzionato e a Dust (2001), Manchevski non ha perso l’attitudine ad una narrazione ellittica e circolare, che gli valse la definizione di “Tarantino” macedone. Non esattamente un complimento, visto che le sue opere risultavano spesso barocche e ridondanti, incapaci di creare una nuova forma stilistica al pari dell’illustre collega statunitense. Ciò premesso questo Willow (Vrba in originale) dimostra una maggiore asciuttezza e capacità di sintesi nel mettere a fuoco quella che è la prerogativa principale del lungometraggio: unire assieme storie di maternità molto complesse, in teoria suscettibili di dibattito e continue discussioni senza pregiudizi. Il viaggio del film parte da lontano, in un passato non specificato – e forse nemmeno tale – ma denso di superstizione e credenze locali. Un frammento di cinema antropologico che, nelle intenzioni del regista, dovrebbe dare l’idea dell’arretratezza di certe zone del paese. Una coppia di agricoltori abitanti in zone sperdute non riesce a procreare. Essi si recano allora dall’anziana del villaggio per un consiglio. Quest’ultima risolve il problema ma chiede, in cambio, l’affidamento del primogenito. La vicenda finirà, ovviamente, nel modo più tragico possibile per tutti. In città, ai giorni nostri, due sorelle trovano difficoltà a rimanere incinta. La più giovane, dopo una cura, risulterà in attesa di due gemelli; e tuttavia sarà costretta ad una scelta difficilissima. L’altra adotta un bambino in apparenza traumatizzato, che non parla ma appare intelligente e reattivo. Riuscirà la donna a conquistarne la fiducia?
Willow è un’opera che si muove su un crinale rischioso. Perché sovente l’ambizione, da parte di Manchevski, di comporre un mosaico paradigmatico sull’universo femminile corre il pericolo di scivolare nel velleitarismo gratuito. Aspetto che non sarebbe, peraltro, affatto nuovo nella filmografia del regista di origine balcanica. Assistere a Willow appare un po’ come prendere posto sulle montagne russe: a sequenza ben costruite da un punto di vista drammaturgico e perciò di forte intensità, si alternano momenti di pura banalità, dove il messaggio si fa sin troppo palese trasfigurandosi nel didascalico. Nelle intenzioni dell’ormai sessantenne Manchevski c’è la dimostrazione di come la condizione femminile sia immutabile. La donna, intesa come simbolo di un granitico tradizionalismo matriarcale, è il baricentro sulla quale gira la società. L’uomo è collaterale, poiché è la donna a custodire i segreti della vita, a partire dal concepimento. Probabilmente una morale condivisibile ma che arriva un po’ fuori tempo massimo, quasi a voler affermare presunte verità scolpite nella pietra che oggi, ai tempi di #metoo, appaiono invece abbastanza scontate. Pure i raccordi di sceneggiatura tra i vari personaggi danno una netta impressione di incompletezza, saltando temporalmente alcuni passaggi che avrebbero potuto, se illustrati, aumentare l’empatia spettatoriale nei confronti delle protagoniste. Restano certo all’attivo le problematiche di ordine morale sui cui confrontarsi; ed un’opera come Willow, alla fine centra il proprio obiettivo, attraverso un epilogo in buona parte riuscito e in aggiunta poetico. Anche se il percorso imboccato dal film risulta tortuoso e non sempre baciato dalla grazia di un’ispirazione continua, qualcosa su cui riflettere, tuttavia, una visione non distratta la lascia.
Daniele De Angelis