Finalmente un realistico approccio al ‘500 italiano
Agli inizi del XVI secolo Michelangelo Buonarroti è un artista celebre ed affermato. E’ alla corte di Giulio II, sta terminando la Cappella Sistina e gli è stato commissionato il colossale monumento funebre del Papa. Un progetto che lo legherà per il resto della sua esistenza alla potente famiglia dei Della Rovere, il prestigioso casato di Giulio II avverso dall’altra grande famiglia che presto, grazie all’elezione di Leone X, salirà a sua volta sul soglio pontificio: i Medici.
Michelangelo si trova dunqe in difficoltà tra notevoli pressioni politiche, irrifiutabili commissioni per lavori lunghi ed impegnativi, obblighi che lo costringono a mettere in secondo piano ora le promesse fatte ai Della Rovere, ora quelle ai Medici. Sullo sfondo della sua infaticabile attività, c’è l’enorme energia creativa del ‘500 italiano, un’epoca spietata che si snoda fra lotte di potere e cinici calcoli politici, ma che sa produrre capolavori immortali. Nella sua vita spesa fra Roma e la Toscana, il grande artista si muove animato da un bizzarro miscuglio di forze: dal desiderio di prevalere in gloria sui suoi rivali contemporanei, Raffaello soprattutto, alla ricerca continua di un benessere economico difficile da mantenere a lungo. Lo guida la furia di creare e una rabbia verso gli ostacoli del mondo, uno slancio al volerli superare a tutti i costi. La sua è una sfida alle leggi, quelle degli uomini e quelle della natura, da portare avanti in uno dei più incredibili periodi storici d’Italia e d’Europa.
Il maestro russo Andrei Konchalovsky si cimenta, con Il peccato – Il furore di Michelangelo, in un kolossal storico, proiettato quale evento speciale all’ultima Festa del Cinema di Roma, e realizzato con un approccio estremamente meticoloso dal punto di vista filologico. All’età di 82 anni il grande regista moscovita possiede la forza e la visione necessaria per restituire al Rinascimento il suo vero aspetto, tradito in questi anni da patinate serie televisive e da artefatti prodotti hollywoodiani. Premiato più volte con il Leone d’argento a Venezia, grazie a Le notti bianche del postino nel 2014 e a Paradise nel 2016, Konchalovsky ha la capacità di mettere in scena miserie e virtù umane, spesso racchiuse e riassunte in vicende che ne sono la drammatica sintesi, si veda a tal proposito il bellissimo Runaway Train, del 1985. Anche qui, non esiste in questo film una visione eccessivamente romanzata dei fatti, non ci sono momenti epici, non ci sono eroi ma storie di persone che cercano di trovare un posto nel mondo. La grandezza di Michelangelo, interpretato in modo sanguigno e viscerale da Alberto Testone, emerge infatti grazie a una efficace rappresentazione del quotidiano, la sua cifra artistica per nulla offuscata dai suoi difetti o dai suoi limiti in quanto uomo, un dettaglio che spesso si tende a ignorare o sminuire quando si parla di figure di tale livello. La sua abilità di scultore va di pari passo con l’ovvia ricerca di denaro, le sue bugie, le invidie e gli scatti d’ira. I suoi sono tentativi di sopperire alle continue richieste di soldi che gli vengono fatte dalla famiglia, che sembra voler vivere dei guadagni del suo illustre membro, ma anche di sopravvivere alle difficili situazioni in cui viene messo dai potenti dell’epoca. A causa di questi è spesso costretto a rimangiarsi la parola data, a rinviare o rivedere nella loro ampiezza lavori già promessi, ad accordare cifre di cui non può disporre. Il suo immenso talento gli vale comunque il perdono di chi lo circonda, la sua abilità di resistere in un mondo così difficile lo vede scampare spesso a punizioni gravissime. E’ il peccato, quello che gli viene più volte ricordato durante la storia, che è sempre in agguato. Un peccato cui è necessario sfuggire, da cui bisogna evitare di essere toccati cercando però di inseguire i propri sogni e le proprie ambizioni.
La lavorazione del film, durato ben 14 settimane, la dice lunga sull’impegno profuso da questa coopruduzione italo-russa, che si nota nei centinaia di costumi attentamente realizzati, nelle decine e decine di comparse, in un’attenzione agli oggetti di scena che sfiora il maniacale. Durante le riprese Konchalovsky è stato chiaro: non voleva vedere dei ritratti di persone ma vera umanità, desiderava che perfino i forti odori, se non addirittura il fetore degli ambienti, permeassero la pellicola, giungessero oltre lo schermo, propositi questi abbondantemente raggiunti. Lo spettatore è così totalmente immerso in una vivida ricostruzione dell’epoca, una visione così realistica, nella sua apparente semplicità, da non avere bisogno di particolari effetti speciali nè di grandi evoluzioni delle inquadrature. L’approccio quasi neorealistico ha fatto sì che per il cast venissero scelte persone qualunque, cercate e trovate fra la Toscana e il Lazio, giungendo così a circondare il Buonarroti da volti che ci restituiscono un periodo storico in tutta la sua schiettezza. In una cornice scenografica di tale rilevanza non tutti gli attori, soprattutto tra chi è impegnato nelle parti secondarie, sono però all’altezza del compito: si notano a tratti alcune stonature o eccessivi manierismi interpretativi che minano la forza dell’intero progetto. La vicenda stessa, pur coinvolgente, sembra a tratti indugiare più sulla rievocazione storica che sul senso compiuto di una narrazione con un inizio e una fine e, in chiusura, sembriamo dover lasciare Michelangelo quando pare ci sia ancora molto da dire e raccontare.
Rimangono comunque ben impresse nello spettatore alcune sequenze particolarmente potenti, come ad esempio la lunga parentesi ambientata a Carrara, dove la ricerca del marmo perfetto, il suo faticoso trasporto, il durissimo lavoro di preparazione all’opera d’arte, ci svelano l’immane fatica che è stata essere un uomo del Rinascimento.
Massimo Brigandì