L’uomo che sognava Lennon
Dopo Pavarotti, la Festa del Cinema di Roma 2019 consegna un’altra biografia che ha incantato le platee globali. Diretto da Richard Lowenstein il documentario Mystify – Michael Hutchence racconta la storia del cantante rock Micheal Hutchence, frontman degli INXS, e della sua travagliata esistenza che lo ha condotto al sucidio nel 1997. Esattamente come con Pavarotti, il lavoro su Hutchence cerca di carpirne i momenti migliori sin dalla sua tenera età. Anche in questo caso, l’opera si basa su testimonianze vocali, immagini di repertorio – concesse ovviamente dalla famiglia – unite per costruire un racconto lineare delle vicende della rockstar. Ad un primo impatto, sembrerebbe che entrambi i documentari, quello diretto da Howard e questo diretto da Lowenstein, siano praticamente gemelli. Eppure, dopo un’analisi più approfondita, si direbbe che il motto “così diversi ma anche così uguali” calzi proprio a pennello. Ovvio che i due direttori di macchina hanno preso scelte stilistiche diverse, ma a livello di sceneggiatura i due film si somigliano moltissimo. Il documentario di Lowenstein, in certi momenti, è molto caotico nel montaggio e lascia più spazio libero alle immagini che ritraggono il cantante nei suoi momenti più intimi e nei suoi concerti più emozionanti. Il racconto passa per l’infanzia, grazie alle testimonianze di famigliari e amici più stretti, per poi proseguire verso il periodo di maggior successo di Hutchence che, insieme alla band, vendette oltre 60 milioni di dischi. A livello emotivo e personale, il documentario svela il lato più romantico di Hutchence grazie alla testimonianza di quelle donne che lo hanno amato alla follia: Michelle Bennet, la cantate Kylie Minogue e infine la presentatrice inglese Paula Yates. Secondo le dichiarazioni delle donne, Micheal era così romantico ma, allo stesso tempo, si diceva incapace di amare. Il documentario però, spinge proprio sul fatto di quanto egli sia stato amato dal pubblico e dalle persone che lo hanno circondato fino alla sua tragica dipartita. Ovviamente, anche in questo caso il documentario non si esime dal raccontare anche i fatti più bui e i lati oscuri di un personaggio sempre al centro dei riflettori per via della sua influenza. Il lavoro entusiasma molto lo spettatore, e la possibilità di ricalcare le gesta di questo straordinario autore e cantante rende il documentario visivamente accettabile. Il clou dell’opera, sopraggiunge quando l’australiano viene aggredito a Parigi e la sua salute viene irreversibilmente danneggiata. Da lì in poi, sarà una parabola discendente a livello psicologico che porterà il personaggio fino al suo epilogo shakespeariano. Il racconto è sublime, ben congeniato, allo stesso modo di Pavarotti. Lo stile ne risente, ma è impossibile non sottolineare che anche questo documentario è un lavoro ben assemblato. Forse si sarebbe potuto fare un uso più lineare e rilassato delle immagini invece di proiettarle come se fossero a tempo di una delle canzoni rock prodotte dallo stesso cantante australiano. Il documentario però, è un pezzo di storia che deve restare in archivio e ci consente di rivivere le esperienze di un altro grande protagonista della musica mondiale. Chiosa finale: esattamente come in Pavarotti, il leader degli U2 Bono ha concesso l’uso della sua immagine e delle sue parole per il completamento di questa opera ben riuscita e piuttosto straziante.
Stefano Beraldo