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Where We Belong

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VOTO: 6.5

Se i ragazzi potessero parlare

Si fa una certa fatica, a catalogare nella categoria del documentario un lungometraggio come Where We Belong, presentato nell’ambito della rassegna dedicata al cinema svizzero contemporaneo 2020. Ciò non perché si dubiti della veridicità assoluta di quello che viene messo in scena, tutt’altro. Anche perché le testimonianze di ragazze e ragazzi uniti dal fatto di essere figli di genitori separati, appaiono quantomai profonde e sincere. Si tratterebbe, semmai, di una mera questione formale. Poiché la regista Jacqueline Zünd opta, per quasi l’intera durata del film, in favore di una messa in quadro estremamente raffinata, ricca di preziosismi visivi nei confronti dei quali ci sarebbe molto da dibattere. Appare dunque abbastanza chiaro come la regista elvetica prenda a modello il cinema di Terrence Malick – almeno quella della seconda parte di carriera dell’autore statunitense – mettendolo al servizio di una problematica tanto reale quanto troppo spesso ignorata da chi si occupa di “fare cinema”. Ecco allora riaffiorare, in più di qualche frangente, il classico flusso di coscienza caratteristico di opere di bellezza epocale quali The Tree of Life (2011) ma anche sin troppo ripetitive nella loro essenza come ad esempio Knight of Cups (2015), ovviamente accompagnato da una ricerca estetica, nel caso di Where We Belong, non all’altezza di quella del Maestro.
Il fattore principale che invece rende il derivativo film di Jacqueline Zünd comunque meritevole di una visione non distratta, risiede proprio nella tematica, negli argomenti che solleva. Impostando una narrazione a mosaico, svelando le voci più intime e personali di adolescenti in età variabile alle prese con il grande quesito relativo all’essere adulti, la Zünd riesce nella non facile impresa di recuperare una pulsione empatica nei confronti di questi giovani già feriti dalla vita. L’aspetto più sorprendente di questa sorta di opera-reportage consiste nel fatto che nessuno di loro emetta giudizi di condanna verso i propri genitori, in qualche modo “colpevoli” di essersi lasciati in modi sin troppo brutali, almeno secondo uno sguardo ancora innocente. Tutti i ragazzi riparano in una posizione di attesa, quasi si trattasse di una forma di legittima difesa. Alcuni, quelli un po’ più maturi, discettano sulla estrema soggetività del concetto di normalità. Che per loro, in luogo di vivere in una famiglia unita, vede moltiplicare alloggi e famiglie acquisite, con nuovi compagne/i per i genitori e, in qualche caso, l’inaspettata aggiunta di fratellastri e sorellastre, consanguinei o meno. Altri, più vicini all’infanzia – e sono i momenti più pregnanti e commoventi dell’intero film – si interrogano invece sulle loro, presunte, responsabilità, ritenendosi a torto una possibile concausa della separazione tra i rispettivi genitori. In ognuno di loro è comunque palpabile la sensazione del dubbio, una domanda che aleggia nelle loro menti come una Spada di Damocle priva del conforto di una risposta concreta: cosa diventeremo noi, una volta raggiunta l’età adulta? Un quesito che continua imperterrito a risuonare nel silenzio ovattato di immagini rapsodiche le quali, come premesso, “sterilizzano” in misura sin troppo evidente un dolore assolutamente spontaneo nel proprio fluire. Come del resto ben testimonia l’ambiguità contenuta nel titolo di questo documentario molto sui generis.

Daniele De Angelis

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