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Knight of Cups

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VOTO: 6

Il cristallo e l’elefante

Quale sia l’origine del click che è scattato nella mente di Terrence Malick, così da portarlo da parco regista autore di una manciata di indimenticabili lungometraggi in quasi quarant’anni di attività a bulimico realizzatore “alla Woody Allen” degli ultimi tempi, non è dato sapere e nemmeno ci interessa molto. Forse il sentore dell’approssimarsi dell’inevitabile fine artistica – Malick ha settantatre anni – può aver contribuito a rendere più fluido il processo comunicativo nei confronti della sua numerosa platea di estimatori, infittendo la propria filmografia. Chissà. Sta di fatto che, dallo splendido The Tree of Life (2011) – autentica opera di sintesi della propria poetica – l’appartato regista de La rabbia giovane (1973) ha cominciato a girare sempre lo “stesso film” di finzione, attraverso le medesime modalità di messa in scena, cioè seguendo il cosiddetto flusso di coscienza dei vari personaggi. I quali regolarmente s’interrogano a voce alta sui massimi sistemi, filosofeggiando su vita, amore, morte ed altre fasi di passaggio dell’esistenza. Tutto ciò accompagnato da immagini talvolta di inusitata meraviglia estetica sapientemente esaltata dai grandangoli usati a mo’ di marchio di fabbrica, ma che sovente creano una sorta di effetto ridondante una volta sovrapposti all’immagine. Era accaduto nel precedente To the Wonder (2012) e la cosa si ripete puntualmente con questo Knight of Cups, passato sin troppo in punta di piedi nell’edizione 2015 del Festival di Berlino per non destare più di qualche perplessità.
Al centro della narrazione – ovviamente si parla di narrazione sui generis – il personaggio di Rick, un Christian Bale perennemente affascinato dalla controparte femminile, che però gli rimprovera con continuità un’endemica incapacità di abbandonarsi al sentimento nella sua totalità. In nome del superiore gusto per la bellezza che Malick antepone ad ogni altra cosa, il pubblico assiste come ipnotizzato al susseguirsi delle conquiste di Rick: tutte donne straordinariamente attraenti – le quali ovviamente simbolizzano le innumerevoli espressioni di quell’Eterno Femminino tanto caro a Goethe – cui prestano il volto attrici come Cate Blanchett, Natalie Portman, Teresa Palmer, Freida Pinto e Imogen Poots, chiedendo preventivamente scusa se ne abbiamo dimenticata qualcuna. Ognuna di esso interagisce con Rick –  attore di mestiere: fattore questo che si presta ad infinite suggestioni tra realtà e finzione – attraverso la voice over del pensiero, creando alla lunga un effetto ripetitivo dal quale possono scaturire, nel corso delle quasi due ore di durata del film, noia o assuefazione. Ed è proprio questo il classico “peccato originale” del nuovo corso artistico malickiano: l’ambizione di svelare il lato intimo di personaggi che dovrebbero diventare persone grazie ad un processo mediante il quale si dovrebbe raggiungere l’essenza assoluta delle stesse. Un procedimento assieme ambizioso ma anche assai rischioso, poiché il pericolo di trovare null’altro che un vuoto estetico alla fine di un percorso che si vorrebbe emozionale ma che, in molti passaggi, risulta solo sterilmente cerebrale, è davvero parecchio elevato.
Come ovvio la parte visiva ripresa da Malick rimane impressa nella retina di chi la guarda. E alcune location fungono da perfetto compendio ad una impossibile ricerca della perfezione umana, di uno stato di benessere totale. Il mistero che aleggia su un film suddiviso in molteplici capitoli non resta però tale, una volta assodata la bramosia dei personaggi nella ricerca di ciò che è impossibile da raggiungere. Così Knight of Cups (forse, passateci la freddura, Knight of Hearts sarebbe stato un titolo maggiormente appropriato) sfocia, dal sottile gioco emozionale che avrebbe potuto e dovuto essere nelle premesse, a inerte contemplazione di un rebus senza soluzione di sorta, in cui coloro che si trovano al di là dello schermo corrono il rischio di un’esclusione a priori. Se solo Knight of Cups e To the Wonder fossero stati cortometraggi muti, privi della ridondanza del Verbo, scriveremmo di due perle assolute, schegge di Cinema in grado di conficcarsi direttamente negli occhi e nel cuore di chi li guarda. Così come sono stati realizzati, invece, appaiono solo come fotocopie un po’ sbiadite di un film epocale – The Tree of Life – in cui Malick aveva già espresso tutto quello che c’era dire a proposito di argomenti che, per la quasi totalità degli altri autori cinematografici, restano e resteranno tabù a dir poco inviolabili.
Quello che purtroppo rimane, al termine della visione di Knight of Cups, è il fondato sospetto di un manierismo tanto strisciante quanto consapevole. Attendiamo con curiosità i prossimi lungometraggi, che non tarderanno…

Daniele De Angelis

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