Non la luce ma il fuoco, in fondo al tunnel
Il rischio qui è di ripetersi. Siamo ormai abituati al fatto che da una piccola nazione come l’Islanda, la cui produzione cinematografica è per forza di cosa numericamente ridotta, arrivino in media film così belli, originali, spiazzanti, da costituire per certi versi un’anomalia. Nonostante questo può capitare ogni tanto di restare ulteriormente sorpresi. Ed è ciò che si è puntualmente verificato di fronte al folgorante lungometraggio di Rúnar Rúnarsson, autore stilisticamente già maturo ma capace al contempo di formidabili acuti, relativamente “nuovo” ma non nuovissimo, nel firmamento mondiale, considerando che i film precedenti – in particolare Passeri (2015) ed Echo (2019) – un po’ di clamore l’avevano comunque suscitato.
Già film d’apertura di Un Certain Regard a Cannes 2024, il suo When the Light Breaks all’ultima Festa del Cinema di Roma ha illuminato la sezione collaterale Alice nella città. E lo ha fatto con un bagliore sinistro.
Lo struggente ma tutt’altro che svenevole racconto cinematografico di Rúnar Rúnarsson prende in contropiede lo spettatore sin dalle battute iniziali. Vi riesce peraltro facendo dialogare in profondità l’animo dei protagonisti con il paesaggio; un fattore, questo, di certo non inedito per il cinema islandese, ma da lui espresso tramite un’inquietudine del tutto personale.
Nelle primissime scene, girate di fronte a una scogliera col tenue tramonto nordico sullo sfondo, vediamo confrontarsi un ragazzo e una ragazza, la deliziosamente androgina Una e l’energico Diddi. A Reykjavík fanno parte di una band. E si amano, in segreto. Diddi si è del resto deciso a troncare l’ormai stanca storia sentimentale con una ragazzotta più ingenua del suo minuscolo paese d’origine, perso nella provincia islandese, tant’è che prima di iniziare una nuova vita con Una ha programmato di lasciare la capitale per qualche giorno, così da chiarire le cose con l’altra al momento ignara di tutto. Siamo alla vigilia di un vibrante racconto di formazione? Siamo agli albori di un intenso amore adolescenziale, da vivere a tempo di rock? Niente affatto. Perché un Fato cinico e crudele s’appresta a metterci lo zampino. Diddi vorrebbe raggiungere la storica fidanzata in aereo, ma un problema meteorologico lo obbliga a prendere l’auto. Sinuoso camera car all’interno di un lunga, interminabile galleria, musica ipnotica di accompagnamento, ma non vedremo mai la proverbiale “luce in fondo al tunnel”, bensì una spaventosa palla di fuoco lanciata verso macchine, vite, relazioni famigliari e sentimentali coi cari lontani, che ne resteranno inesorabilmente travolte. Stroncate senza possibilità di appello. Ben presto si sparge nel paese la voce del catastrofico incidente stradale. E la stessa Una, superata l’iniziale incredulità, dovrà man mano rassegnarsi all’idea che la vita sognata con Diddi al suo fianco sia destinata a restare, per l’appunto, un sogno.
Insomma, la poetica di When the Light Breaks accarezza soltanto l’ipotesi del coming of age, mette in scena laconicamente una bozza di disaster movie e si trasforma gradualmente in elaborazione del lutto, privato e collettivo, le cui premesse vengono sviluppate con una sensibilità comune solo ai grandi autori. Atom Egoyan, su tutti. La disperata ricerca di notizie su Diddi e su altri ragazzi dichiarati dispersi nell’incidente, da parte di Una e dei suoi amici, si nutre anche delle gelide simmetrie offerte da punti di raccolta e da altri luoghi della capitale islandese, filmati in aperto contrasto coi sublimi e comunque angoscianti orizzonti aperti, che il regista fotografa invece in altri momenti, lasciando parlare la natura artica e la sua sconvolgente bellezza.
All’interno di tale cornice il dramma interiore di Una: poter sfogare il proprio dolore e quindi confidarsi con una sola persona, quell’amico comune che ha intuito tutto, mentre con gli altri e in particolare con la vecchia ragazza di Diddi, precipitatasi a Reykjavík già alla notizia della tragedia, le convenzioni sociali vogliono che certi retroscena privati restino tali, silenziati per sempre. Qui Rúnar Rúnarsson, magnifico anche nella scelta e nella direzione dei giovani interpreti, dà il meglio di sé affastellando sottintesi, omissioni, rivelazioni parziali o appena accennate, riverberi di emozioni profonde, dialoghi appena sussurrati ma costantemente sul punto di generare incontrollabili esplosioni emotive; lasciando poi che le due ragazze, così diverse tra loro ma entrambe profondamente vere, umane, maturino la loro visione dell’accaduto al punto di cercare istintivamente un contatto reale e non di facciata. Cosa che in un certo senso avverrà nel finale, in modo fortunatamente non “gridato” ma ricondotto sottotraccia e con grazia all’essenza del loro animo frantumato, devastato dalla recente perdita ma ancora estremamente vitale.
Stefano Coccia