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Volevo nascondermi

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VOTO: 7

Soggetto indesiderato

Antonio Ligabue è un perfetto “protagonista” cinematografico. Non a caso, nel corso della diegesi di Volevo nascondermi, viene scelto come attore in un film ambientato nella Bassa Padana dal regista romano Raffaele Andreassi, per un documentario. Metacinema, ma fino ad un certo punto. Perché nell’intera esistenza del celebre pittore – ma anche valente sculture – Vita e Arte costituiscono un groviglio in tutto e per tutto inestricabile. Lo ha compreso bene Giorgio Diritti, che ha messo al servizio del personaggio in questione la sua visione della Settima Arte così permeata di senso etico nello studio antropologico, come ben dimostrato nei precedenti lungometraggi Il vento fa il suo giro (2005), L’uomo che verrà (2009) e Un giorno devi andare (2013); tutte opere di fortissima suggestione morale costruita dal basso, cioè partendo da un’umanità “normale” in continua ricerca di quel qualcosa che un determinato tenore di vita non riesce ad offrire.
La prima parte di Volevo nascondermi – opera presentata in Concorso alla Berlinale 2020 – è esemplare. Grande cinema che ci fa osservare, grazie ad un vertiginoso montaggio composto da continue ellissi temporali, impotenti ed impietriti all’evoluzione di un’esistenza in apparenza segnata dalla sorte. Il piccolo Antonio Costa (dal cognome della madre, italiana immigrata in Svizzera. Poi acquisirà quello per cui è universalmente conosciuto…), adottato da una famiglia locale, è un reietto. Segnato da un razzismo sin troppo esplicito nei confronti degli italiani in terra elvetica agli albori del millennio scorso (discorso reversibile nel nostro triste presente), viene subitaneamente condannato alla diversità dell’isolamento. Schernito e mai amato, trova conforto nel dettaglio delle cose. Un processo che Diritti, da buon allievo di Ermanno Olmi, illustra mirabilmente attraverso una simbiosi selvaggia tra l’essere umano Ligabue e la Natura nella propria interezza, fauna ovviamente compresa. L’espressione artistica, sofferta e rabbiosa, diventa unica forma di comunicazione, in primo luogo verso stesso e solo dopo nei confronti del resto del mondo. Una società che lo evita per la sua alterità fisica e caratteriale, disprezzandone da principio persino quel personale modo di esprimersi tramite la pittura. Un modello artistico tanto infantile quanto puro, in quanto scevro di sovrastrutture precostituite. Un’arte che trascende i propri soggetti dal reale mostrandone l’essenza, un’innocenza che solo Ligabue stesso riesce a vedere. Diritti intavola con sopraffina abilità un’inscindibile connessione tra acuta e primordiale sensibilità e talento artistico che rappresenta una condanna all’estraniamento. Amare se stessi diventa impresa impossibile e il piccolo, adolescente e giovane Ligabue – ritratto nelle varie fasi temporali senza soluzione di continuità – non può che mostrare inclinazioni masochistiche, punendosi per questa diversità da subito inculcatagli e quindi alimentata da lui stesso. La compenetrazione è pressoché totale, per cui nello spettatore sale alta la sensazione di vertigine.
Nella seconda parte del film il ritmo del racconto si acquieta, seguendo di pari passo il tentativo da parte di Ligabue di “normalizzare” in qualche modo la propria vita. L’incontro con persone amiche. La passione per i motori. L’approccio con l’altro sesso. E Volevo nascondermi perde un po’ il senso del suo stesso titolo, edulcorando sin troppo un materiale narrativo che diventa così prevedibile, ancorché seguendo filologicamente i momenti dell’esistenza di Ligabue stesso. Al quale risulterà fatale, dopo aver raggiunto finalmente il meritato successo in campo artistico, l’ultimo passo verso una vita come tante altre, fatta di famiglia e un po’ d’amore. Destino che lui avvertiva essergli negato sin dall’inizio.
Restano comunque quasi intatti i meriti di un’opera che, partendo da un concetto sui generis di biopic, ambisce chiaramente alla universalizzazione del racconto, per larghi tratti raggiungendo tale obiettivo. Grazie anche alla performance attoriale di un Elio Germano totalmente compreso nel ruolo, ottimo nell’esternare ora rabbia per la malasorte, ora tenerezza per un desiderio di amore mai esaudito. Alle prese con un personaggio meno codificato nell’immaginario popolare rispetto al Craxi magnificamente impersonato da Pierfrancesco Favino nel recente Hammamet di Gianni Amelio, l’interprete romano ne colma i lati oscuri come solo gli attori di razza sanno fare. Vedremo se la giuria berlinese se ne accorgerà…

Daniele De Angelis

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