In punta di piedi
Tra tutti i grandi cineasti, nostrani e internazionali, Ermanno Olmi possedeva un talento unico: quello di saper semplificare, ricercando l’autentica radice delle cose. Sarebbe infatti sin troppo riduttivo definirlo il cantore di un mondo antico, quieto e in sostanziale antitesi rispetto alla frenesia insita nella modernità. Olmi è stato molto di più. Un regista che non ha mai avuto la velleità di farsi autore, costantemente alla ricerca delle chiavi più adatte per rendere il proprio cinema effettivamente aperto verso tutti coloro che intendevano fruirne, andando incontro ad una esperienza dell’anima capace di andare ben oltre una semplice visione cinematografica.
I suoi lavori sono stati innumerevoli, frutto di una carriera cominciata nei lontani anni cinquanta. Sempre oscillanti tra la magica realtà del documentario e la verità della finzione. Un tratto poetico che accomuna la sua opera più celebre – L’albero degli zoccoli, 1978 – ad altre dal respiro quasi epico come ad esempio lo straordinario Il mestiere delle armi, da lui diretto nel 2001. Eppure l’essenza era la medesima: osservare per capire. Una benefica umiltà che oggi si è inevitabilmente persa, nel nome di un perverso meccanismo secondo il quale un opinione, anche nel panorama culturale, deve essere gridata e non ricercata attraverso il ragionamento. Ad Olmi al contrario interessava comprendere la straordinaria complessità della vita. E per questo, in tutti i lungometraggi in cui ha trattato l’argomento bellico – dall’ultimo capolavoro torneranno i prati (notare il titolo in minuscolo da lui fortemente preteso) al giù citato Il mestiere delle armi oppure al sottovalutato Cantando dietro i paraventi (2003) – si è sempre schierato contro l’assurdità di qualsiasi tipo di conflitto, motivando con chiarezza cristallina, quasi filosofica, la propria posizione antimilitarista. Poi tante altre escursioni cinematografiche all’esplorazione di scelte esistenziali fuori dagli ottusi parametri della logica guadagno uguale benessere. Tratto dal testo di Dino Buzzati Il segreto del bosco vecchio (1993) ci ricorda l’importanza suprema di tendere l’orecchio alla Natura, in un’opera nobilitata dal talento di un altro grande del nostro cinema di recente scomparso, Paolo Villaggio. Ma anche, andando a ritroso, la struggente spiritualità de La leggenda del santo bevitore (Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 1988) o la sarcastica satira borghese, osservata attraverso lo sguardo “vergine” di un giovane cameriere “ultima ruota del carro” di Lunga vita alla signora! (1987).
Come tralasciare poi il bellissimo Centochiodi (2007), raffinatissima operazione concettuale con la falsa icona contemporanea da rotocalco Raz Degan tramutata da Olmi in un moderno Cristo laico in cerca di una possibile pacificazione spirituale nel ritorno alla Natura?
Scusandoci in anticipo per la forzata sintesi di un ricordo che mai avremmo voluto scrivere, ci pare il caso di riaffermare un concetto: in un mondo ideale sarebbe cosa buona e giusta che alla figura di Ermanno Olmi, con tutto il suo bagaglio fatto di gemme preziose, non fosse consentito di finire nel dimenticatoio, sorte che l’usura del tempo riserva un po’ a chiunque. Confessiamo di essere scettici a tal proposito; forse perché consapevoli di vivere in un paese in cui qualsiasi tipo di memoria, da quella storica a quella socio-politica, ha una durata inopinatamente breve. Ci consoliamo pensando che il ritorno di Ermanno Olmi alla terra contadina da lui così soavemente raccontata sarà lieve. Non può che essere così, riflettendoci bene.
Daniele De Angelis