Un tempo c’era un mondo
Per comprendere al meglio un’opera come Vermiglio bisogna andare oltre la normale fruizione cinematografica. Oltre i tempi narrativi cadenzati di quei film che vogliono osservare (e studiare) l’esistenza di una comunità di essere umani. Siamo in Trentino, al tramonto della Seconda Guerra Mondiale. Un conflitto di cui si parla, ma che non si vede. Si notano però gli effetti. Soprattutto sulla famiglia numerosa di cui il maestro Cesare è il capostipite.
Alla sua opera seconda dopo l’ottimo Maternal (2019), Maura Delpero incolla allo schermo semplicemente grazie alla strategia dell’occultamento. Vermiglio pare un film alla Ermanno Olmi, in cui prevale il realismo e dove le difficoltà del vivere e crescere vengono illustrate in modo spontaneo. Si tratta, ancora una volta, di benefico “inganno”. Di saper cercare perle nascoste in un contesto atavico con riflessi sulla presunta modernità del presente. In Vermiglio c’è il patriarcato indissolubile. Ci sono le donne in seconda fila che tessono la tela degli accadimenti. C’è la guerra con i propri effetti collaterali imprevedibili. C’è un’infanzia breve ed un’adolescenza ancora più corta, che in un amen ti conduce alla maternità. Soprattutto si avverte, palpabile, il desiderio di sopravvivere ad una vita segnata dalle proprie origini, simbolizzata dall’energia inesauribile di Cesare (Tommaso Ragno) nel voler tramandare cultura. A tutti, senza distinzioni di sorta tra la sua famiglia ed altri membri della comunità.
Vermiglio pare dunque un’opera sul concetto di stasi esistenziale, mentre invece tutto accade, all’ombra di una naturalezza capace di incutere persino timore. I bambini piccoli muoiono di malattia. E il dolore si stempera in una Fede assolutista alla quale abbandonarsi in maniera totale. Qualunque protagonista femminile di Vermiglio – che di fatto è una storia tutta al femminile – risulta come prigioniera di alcune forze concentriche. Da un lato l’esercizio di un potere maschile, dall’altro il peso di una religione fortemente limitante del libero arbitrio. Una trappola senza uscita da cui l’intero comparto femminile cerca di trovare una possibile via di fuga. A maggior ragione Lucia, sposata con prole al siciliano Pietro, soldato approdato al Nord a causa di eventi bellici. La cui fine avverrà nel modo più beffardo possibile al suo ritorno nell’isola.
Non è esente da parentesi narrative discutibili, Vermiglio. Soprattutto quando distoglie lo sguardo dalla montagna per rivolgerlo altrove, ad approfondire tematiche che potrebbero risultare superflue, come quelle di un delitto d’onore ormai superato, meno male, dallo scorrere del tempo. Tuttavia lo sguardo di Maura Delpero, resta limpido: questo ricordo familiare di tempi che furono riesce a far breccia anche per la densità emotiva di ciò che racconta.
Ecco dunque spiegato il Gran Premio della Giuria (meritatissimo) ottenuto all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Un regalo della giuria all’Italia? Tutt’altro. Piuttosto la dimostrazione di un Cinema raffinato e completo capace di guardare alle origini, dell’autrice e di noi tutti. E a coloro che hanno definito o definiranno Vermiglio un film tipicamente da Festival, potremmo rispondere che sono proprio le rassegne cinematografiche ad allargare gli orizzonti del singolo spettatore. Non fosse altro per la diversità di autori e stili che, ovviamente, veicolano.
Daniele De Angelis