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Trois jours et une vie

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VOTO: 6.5

Un segreto poco segreto

Natale del 1999, foresta delle Ardenne belghe. In un piccolo e ameno villaggio dove tutti si conoscono e ognuno sa tutto dell’altro, tre tragici avvenimenti cambiano per sempre la vita del giovane Antoine: la morte dell’intrepido cane dei suoi vicini, la misteriosa scomparsa del piccolo Rémi e la “tempesta del secolo”, che avrebbe devastato tutto al suo passaggio. Antoine è testimone di queste tragedie, ognuna delle quali immerge gradualmente la sua cittadina in uno stato sempre più profondo di sgomento e scompiglio. Riuscirà Antoine a tirarsi fuori da questa funesta spirale.
Quello che avete appena letto non è il sunto di uno dei tanti casi finiti sulle pagine della cronaca nera, capaci di monopolizzare l’attenzione dei media per giorni, settimane e anni interi. Per fortuna quella portata sul grande schermo da Nicolas Boukhrief in Trois jours et une vie, seppur direttamente o indirettamente in grado di rievocare per analogie tragici eventi della storia più o meno recente, è un racconto che nasce nella mente e poi dalla penna dello scrittore Pierre Lemaitre, diventato la base del suo romanzo omonimo del quale il film in questione è la trasposizione presentata nella Selezione Ufficiale della 14esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta francese è un delitto con (forse) castigo che riporta alla mente I Know What You Did Last Summer, ma epurato dalle derive slasher che fanno capolino sulla timeline della pellicola di Jim Gillespie. Trois jours et une vie è piuttosto un mix di generi che si muove tra noir, thriller psicologico, dramma umano e collettivo al contempo. Incrocio genetico che alimenta uno script che cambia fisionomia e modus operandi con il salto temporale che sposta le lancette di quindici anni dai tragici eventi. Se nella prima ora si prospetta la possibilità di assistere a una caccia al responsabile della sparizione del piccolo Rémi sulla falsa riga di Mon garçon di Christian Carion, nella seconda la trama si stratifica aumentando la linea mistery per seguire le mosse della partita a scacchi che il regista intraprende con lo spettatore per riportare o no a galla la verità che sembrava morta e sepolta.
Ne scaturiscono due parti ben distinte che mettono in evidenza la doppia faccia del film, ciascuna a proprio modo con i suoi pregi e le sue mancanze: una prima decisamente più riuscita sul piano delle atmosfere ma che ci mette più del dovuto a ingranare; una seconda dove il meccanismo thrilling e la costruzione della tensione riescono a calamitare a sé l’attenzione della platea nonostante qualche forzatura presente nello script per fare in modo che il cerchio si chiuda e si stringa intorno al protagonista, che nella sua versione adulta vede impegnato il bravissimo Pablo Pauly. In generale la costruzione scatologica funziona con dei rilanci efficaci che alimentano il coinvolgimento dello spettatore. Merito anche della regia di Boukhrief, tanto efficace nel dirigere gli attori (si segnala la performance della sempre affidabile Sandrine Bonnaire, qui nelle vesti della madre di Antoine) e nell’assecondare i cambi di passo e di colori della narrazione.

Francesco Del Grosso

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