L’abbraccio di Giuda
La Mafia vista come catalizzattrice di una poetica cinematografica. Quale autore avrebbe potuto pemettersi una tale “dichiarazione di intenti”? Solamente uno. Martin Scorsese. E dopo oltre cinquant’anni di una filmografia straordinariamente ricca, variegata e avvincente (per i cinefili), ecco l’opera definitiva sulla materia: The Irishman. Una produzione Netflix presentata alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. La quale casa potrà finalmente attribuirsi una medaglia al valore cinematografico, potendo dunque vantare la paternità finanziaria di un’opera destinata agli annali della Storia del Cinema.
Da un punto di vista narrativo The Irishman non rappresenta una novità assouta nella carriera di Scorsese. Quella di adottare il punto di vista specifico di un personaggio è stata una scelta già considerata ai tempi del magnifico Quei bravi ragazzi (Good Fellas, 1990). Lì toccava all’Henry Hill di Ray Liotta, il compito di raccontare un’intera esistenza al servizio di Cosa Nostra; in The Irishman è il turno di tale Frank Sheeran, piccolo pesce di origine irlandese entrato nel business quasi per caso, essere protagonista di una parabola esistenziale a proprio modo esemplare. Non certo fortuitamente o per semplice riconoscenza tornano dunque i volti storici del cinema scorsesiano. Un misuratissimo Robert De Niro impersona Frank, mentre Joe Pesci e Harvey Keitel interpretano, con presenza temporale differente nel film, due potenti boss italoamericani. Ma The Irishman non è solo questo. Rappresenta anche un’osservazione a trecentosessanta gradi del fenomeno mafioso e sui codici non scritti che ne regolano i meccanismi interni, divaricandosi poi quasi immediatamente in due percorsi diversi che viaggiano a poca distanza l’uno dall’altro fino ad incrociarsi fatalmente. C’è una dimensione maggiormente intimista, che va a trasfigurarsi nelle famiglie dei personaggi principali, ivi compresa quella del discusso sindacalista plenipotenziario Jimmy Hoffa, tradotto sullo schermo da una memorabile interpretazione di Al Pacino; poi affiora a più riprese una ricostruzione storica da far tremare i polsi delle vene per quanto ogni possibile forma di Potere, negli Stati Uniti sia filiazione diretta di corruzione e prevaricazione assoluta. Oltre ad Hoffa a finire nel carnaio di questo affresco storico di portata incommensurabile ci sono i fratelli Kennedy, John e Bob, idealisti convinti di poter cambiare l’America volgendola al proprio senso etico. Si sa come è finita per entrambi. E questa ricostruzione di tre ore e mezza di durata – assolutamente indispensabile – lascia sottintendere l’esistenza continua di qualcuno posizionato più in alto, a determinare i destini dei grandi, medi e piccoli personaggi messi in scena da Scorsese e dall’ottimo sceneggiatore Steven Zaillian (Oscar nella categoria per Schindler’s List di Steven Spielberg, nell’ormai lontano 1993) a propria volta basatosi sul romanzo omonimo di Charles Brandt.
Tuttavia tutto questo ancora non basterebbe a fare di The Irishman il capolavoro che è. Poiché è ben presente, nell’intero arco del film, un’altra istanza che riguarda il Tempo ed il suo inesorabile scorrere. Infatti la prima sequenza – un carrello molto efficace e “antispettacolare”, quasi opposto al glorioso piano sequenza presente in Good Fellas, che ci porta ad esplorare i corridoi di una casa di riposo per anziani dove Frank è ospite – ci suggerisce l’idea di come il Tempo stesso ridimensioni ogni fatto ma senza la possibilità di cancellarlo completamente. Molti invecchieranno, Frank compreso. Qualcuno morirà in prigione. Ma è in seno alla famiglia di Frank che prende corpo un dramma dal sapore nemmeno troppo vagamente shakespeariano, con la figlia Peggy – divenuta pupilla di Jimmy Hoffa sin da bambina – a calarsi nello scomodo ruolo della sola persona in grado di intuire ciò che realmente è accaduto tra Frank, suo padre, e lo stesso Hoffa: uno sguardo limpidamente morale al quale lo spettatore si aggrappa per non cadere anche lui/lei nel baratro di una immedesimazione totale in quelle lotte di Potere. Che continuano e continueranno sino alla fine dei giorni. Almeno secondo un antropologo honoris causa prestato al cinema con esiti eclatanti di nome Martin Scorsese.
Daniele De Angelis