In vino veritas
Film d’apertura del 71° Festival di Cannes, Todos lo saben (in Italia Tutti lo sanno) rappresenta l’avventura spagnola del regista iraniano Asghar Farhadi, con popolari attori come Penélope Cruz e Javier Bardem. Si incarna ancora così quella dimensione apolide, quella tensione tra patria e desiderio di fuga, che accomuna il suo cinema ai suoi personaggi, come nel film Una separazione, che lo ha fatto conoscere a un pubblico internazionale. E che lo ha portato già a un film francese come Il passato, senza rinunciare alle produzioni nazionali, Il cliente, in una possibile alternanza.
La storia di Todos lo saben, vede Laura (Penélope Cruz), con la sua famiglia, tornare, da Buenos Aires dove si è trasferita, al suo villaggio natio, tra i vigneti della campagna vicina a Madrid. Consumando così peraltro uno sberleffo, celebrando un contesto agli antipodi del suo paese d’origine, l’Iran, dove vige la stretta osservanza coranica che vieta l’alcol, nella ambientazione della vita di campagna che segue i ritmi naturali della coltivazione della vite. Il motivo del viaggio è il matrimonio della sorella di Laura. La festa nuziale si svolge in pompa magna quando un evento drammatico, il rapimento a scopo di estorsione della figlia di Laura, fa sprofondare la situazione nel baratro, diventando anche un vaso di Pandora che si scoperchia, liberando tutti i mostri, gli scheletri nell’armadio famigliari, i tradimenti, i figli illegittimi. Mater semper certa est, pater numquam, come vuole l’adagio latino.
L’operazione spagnola di Asghar Farhadi funziona fino a un certo punto, a differenza di quella francese di Il passato. E il regista iraniano fatica a tenere insieme una sua dimensione autoriale con esigenze da cinema di genere, una sua concezione che vorrebbe essere cosmopolita con le imposizioni spesso limitanti delle coproduzioni internazionali. Da un lato Farhadi lavora per stasi narrative, situazioni statiche stagnanti dove a fatica si arriva a uno sbocco, la prima della festa del matrimonio, che risulta troppo lunga per le aspettative spettatoriali del cinema di genere, e la seconda del rapimento con le sue conseguenze. Il film comincia con una parte di feste, balli, frizzi e lazzi nell’aia, dove il cinema del primo Kusturica si mescola a film come Il profumo del mosto selvatico che celebrano la vita di campagna, al servizio della coltivazione della vite e della lavorazione degli acini d’uva che si trasformeranno in vino. La seconda parte è un thriller angosciante che tracima nel dramma famigliare tipico delle culture nordiche, nella dissacrazione della famiglia borghese. Arriviamo dalle parti di Festen di Thomas Vinterberg per intenderci. E a ciò si aggiungono dei risvolti sociali, nella tensione tra il proprietaro terriero, Paco (Javier Bardem), e i suoi braccianti.
L’equilibrio tra il rapimento, la ricerca dei soldi per il riscatto, l’angoscia per la sorte della ragazza peraltro malata, e il riemergere del passato torbido è la cosa che Farhadi non riesce a mantenere. Se la prima cosa avrebbe dovuto essere il MacGuffin per l’emergere della seconda, allora la conclusione più logica sarebbe stata come quella di Antonioni in L’avventura. Farhadi non ne ha però il coraggio e deve portare a compimento le linee narrative con una, pur incompleta, conclusione. Si buttano così via anche quelle metafore concepite da Farhadi, come quando indugia sul meccanismo artigianale a ingranaggi del funzionamento del campanile della chiesa. Sono gli ingranaggi dell’esistenza che possono incepparsi, dando luogo a situazioni inaspettate e fuori luogo. Si possono così azionare le campane nel momento sbagliato, turbando così la cerimonia, e in qualche modo prefigurando una stonatura nell’apparente calma piatta che sta dominando il film. Paco, in una delle prime scene, il vignaiolo, è intento in una dimostrazione didattica, mostrando la differenza tra il mosto e il vino. Che finisce per diventare una metafora involontaria della non riuscita stessa del film che rimane mosto senza riuscire a fermentare, che non riesce a portare a conclusione le pur ottime intenzioni.
Giampiero Raganelli