I sommersi e i salvati
Un titolo gogoliano per l’ultima opera di Wang Bing, Dead Souls, le anime morte, presentata al 71° Festival di Cannes come proiezione speciale. Il grande documentarista, coscienza critica della società cinese, torna a un’opera dalla durata fiume, più di otto ore, come il suo film d’esordio, West of Tracks, e al tema che già aveva affrontato nel suo unico film non documentario, The Ditch del 2010, ovvero i campi di internamento maoisti istituiti durante l’epoca del Grande balzo in avanti (1958-1961) per purgare i cittadini considerati di ultra-destra.
Se le anime morte di Gogol erano persone decedute non ancora registrate burocraticamente come tali, i protagonisti di quest’opera di Wang Bing sono gli anziani sopravvissuti dei campi di lavoro. Molti di loro sono morti ora, come spiegano le didascalie che raccontano le biografie di ognuno di loro, il regista ne ha catturato le ultime ore. I filmati con le loro interviste risalgono infatti attorno al 2005 e fanno parte probabilmente del lavoro di documentazione del regista per il suo film The Ditch. Ma le anime di queste persone probabilmente erano già morte nella fine degli anni ’50, nelle condizioni disumane in cui si erano trovati. Tenere in vita la loro memoria è diventato ora il compito del cineasta. E l’affetto che emana di queste persone alla fine della loro vita, il primo lo vediamo a letto quasi ad aspettare la fine, di uno vediamo poi il funerale, festoso, colorato, rientra in quella sensibilità per la senescenza, quell’accarezzare la vecchiaia, il congedo dalla vita terrena, che il regista aveva mostrato nel precedente film Mrs. Fang.
Per questo Wang Bing sembra sottrarsi, come regista, annullarsi, per lasciare spazio a loro, ai sopravvissuti concedendogli il maggiore spazio possibile proprio per il rispetto che gli si deve. Vedendo Dead Souls si ha la sensazione di assistere a un semplice girato, senza che sia stato operato il montaggio. Non è ovviamente così, ma quello che effettivamente manca è una selezione del materiale, una cernita di quello che sia più o meno interessante. Wang Bing viola apertamente le regole del documentario e del cinema stesso che sforbicia il più possibile per rendere l’opera commercialmente fruibile. Le persone intervistate raccontano spesso le stesse cose, o cose molto simili. L’estrema precarietà dell’esistenza all’interno di quei campi, la penuria di razioni alimentari, l’arrivo al punto di non riuscire più a seppellire i morti, il nutrirsi di tutto finanche carne umana e bere le proprie urine, le temperature bassissime, i riferimenti alla Bibbia fatti da più di un intervistato, il clima di sospetto che li ha portati a essere internati. Il fatto che accomuna molti di loro poi è proprio di essere stati adibiti al ruolo di cuoco, cosa che li ha salvati. Il risultato quindi è quello, ricercato, di un’estrema ridondanza. Wang Bing rinuncia all’arbitrio proprio del regista, al suo potere decisionale, scendendo li scalini e mettendosi allo stesso piano, se non a un piano inferiore, agli intervistati, ponendosi al loro servizio. E così anche l’ultima scena, nelle rovine di uno di quei campi, coperte dalla sabbia del deserto e traboccante di ossa, sembra non finire mai. Girata con macchina a mano traballante, che registra l’effetto stesso di visione altalenante di una camminata, per arrivare a riprendere le spoglie ossee, i teschi, come mossi dall’esigenza di non dimenticarne nessuno, di inquadrare tutti quei resti ossei, di rendere omaggio a tutte, per quanto sia possibile, quelle anime morte, di celebrare con il cinema quel funerale di cui non hanno avuto diritto. Così sono lunghissime, dettagliatissime anche le didascalie che spiegano fatti e personaggi. Di fronte all’importanza della materia il tempo non può rappresentare un fattore limitante, Wang Bing sente l’esigenza di prendersi tutto il tempo necessario.
Wang Bing compare come voce off delle domande delle interviste finendo a volte dentro l’inquadratura, mentre fuma una sigaretta. Alcune scene sono fuori fuoco, alcune riprese sono offuscate anche per il l’obiettivo che si è sporcato. Ma è ancora una presa di distanza rispetto al documentario commerciale televisivo, dove tutto deve essere perfettamente a fuoco, perfettamente illuminato. Se il cinema di Wang Bing funziona con un’estetica della contaminazione, della sporcizia nel mostrare senza filtri il degrado di ciò che riprende, così la forma stessa del suo cinema è quella dell’imperfezione formale.
Giampiero Raganelli