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The Place

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VOTO: 5

Ancora una volta, la Commedia Umana

Al tavolino di un bar chiamato “The Place” siede sempre un uomo alquanto misterioso, il quale, nel corso della giornata, riceve numerose visite di gente che ha un forte bisogno di cambiare, in un modo o nell’altro, la propria vita. Fino a che punto, però, si è disposti ad arrivare per realizzare i propri sogni? Quali gesti estremi sono capaci di compiere le persone, al fine di raggiungere la tanto agognata felicità? Sarà l’uomo misterioso ad assegnare loro dei compiti, la maggior parte delle volte privi di qualsiasi morale, per far sì che ognuno realizzi ciò che più desidera. E così, con tali premesse, si apre questo ultimo lungometraggio del regista Paolo Genovese, il quale, reduce dal successo del suo Perfetti sconosciuti (2016), punta, questa volta, a raccontarci l’umanità dando vita a The Place, presentato in chiusura della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Partendo dalla situazione sopra descritta, di fatto questo lavoro di Genovese sembrerebbe promettere bene. Almeno sulla carta. Tutto sta, poi, nello sviluppare il lavoro nel modo giusto, evitando pericolose retoriche e facili moralismi. Cosa, questa, assai più frequente di quanto si possa immaginare. Tuttavia, analogamente a quanto è accaduto in Perfetti sconosciuti – giusto per concentrarci soltanto sugli ultimi lungometraggi di Genovese – il regista è finito, anche in questa occasione, per dare vita ad un prodotto eccessivamente buonista, addirittura ruffiano, che per il finale scontato e fortemente prevedibile, per i “colpi di scena” decisamente telefonati, oltre che per l’andamento della vicenda privo di reali picchi narrativi, non riesce a regalare alla storia lo spessore che merita, ma finisce, al contrario, per adoperare espedienti eccessivamente facili e semplicistici, mirati ad ingraziarsi il pubblico.
Poco ci importa, in realtà, del misterioso uomo del bar (interpretato da Valerio Mastandrea) o della schiera di suoi “seguaci” (anch’essi con i volti dei più noti attori italiani contemporanei come Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Vinicio Marchioni ed Alba Rohrwacher). Nessuno, realmente e nonostante le drammatiche condizioni esistenziali, riesce ad empatizzare con lo spettatore. Nemmeno quando ci sono di mezzo bambini malati, in pericolo di vita o difficili rapporti con i genitori.
E così, anche questa volta, una trovata potenzialmente interessante finisce per sgonfiarsi man mano come un palloncino. Ciò che resta è comunque un prodotto che sicuramente non farà che incuriosire un buon numero di spettatori, che di certo verrà da alcuni osannato come se in Italia, fino ad oggi, non si sia ancora fatto di meglio. Almeno, così è successo per i precedenti lavori del regista come Tutta colpa di Freud o, appunto, Perfetti sconosciuti. Una curiosità, però, sorge spontanea: partendo da un’idea del genere, in che modo altri paesi avrebbero saputo svilupparla? Verrebbe addirittura da pensare a cosa sarebbe potuto accadere nell’ambito della cinematografia scandinava – data la tipica “cattiveria” nel mettere in scena commedie che ci raccontano la società. Ma questa – purtroppo! – è un’altra storia.

Marina Pavido

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