Incubi e Deliri
Il regista Rodney Ascher fece già parlare di sé nel 2012, quando presentò il discusso documentario Overlook Hotel: Stanza 237 (Room 237) – che gli è valso il premio come Miglior Regia all’Austin Fantastic Fest – incentrato su Shining di Stanley Kubrick e in cui teorie anche interessanti si mischiavano a voli pindarici francamente eccessivi e privi di fondamento, in un’opera tuttavia tecnicamente valevole, ben girata e montata. Dopo la parentesi non troppo felice del segmento Q is for Questionnaire nel collettivo The ABCs of Death 2 (2014), Ascher torna a riproporre il formato documentaristico affrontando una tematica affascinante, ossia quella della “sleep paralysis”. La paralisi notturna è un disturbo del sonno che può essere episodico oppure cronico, spesso accompagnato da allucinazioni spaventevoli: una delle più comuni è quella dell’intruder, ossia l’invasore, una presenza/ombra minacciosa che si manifesta al soggetto in dormiveglia.
La definizione di paralisi notturna ha radici anglosassoni, in quanto fu coniata da Samuel Johnson nel suo A Dictionary of the English Language (1755) col termine “nightmare”, che si è successivamente evoluto nel concetto contemporaneo di incubo notturno. All’epoca, era considerata opera di demoni, gli “incubi” (singolare: incubus), esseri maligni che si credeva si posassero sul petto dei dormienti, impedendo loro di muoversi e respirare: l’equivalente di incubus in inglese antico è, per l’appunto, il “mare” o “mære”, da cui la parola nightmare. Questo tipo di disturbo è ancora oggi oggetto di studi, in quanto non vi è certezza sulle cause: tra le più probabili vi è una disfunzione della fase REM del sonno, che può avere origini psicologiche o fisiologiche. Per quanto la sleep paralysis cronica non abbia ancora trovato una cura risolutiva, tuttavia è possibile tenerla sotto controllo con terapie farmacologiche e un attento monitoraggio dei cicli sonno-veglia.
Un argomento indubbiamente affascinante, che è spesso stato trattato da un punto di vista paranormale, legandolo ai rapimenti alieni e alle possessioni demoniache, e assai più di rado è stato indagato con modalità medico/scientifiche, sicuramente più pertinenti. Ascher ripete lo stesso errore già commesso con Room 237, aggiungendo ulteriori aggravanti: non soltanto non prende in considerazione il disturbo in quanto patologia, ma giunge anche a svalutare i pareri medici, per bocca delle otto persone intervistate, vittime dell’inquietante disfunzione. Così come nel doc su Kubrick sprecava alcune intuizioni interessanti, gonfiandole a dismisura fino al limite del ridicolo, in The Nightmare il regista sceglie il tono maggiormente sensazionalistico, senza analizzare il fenomeno bensì esponendolo, tramite ricostruzioni, nel suo lato orrorifico/sovrannaturale e meno credibile.
I soggetti intervistati soffrono di paralisi notturna cronica, con modalità diverse, e ne narrano le dinamiche mentre si mette in scena ciò che raccontano: il visivo è di sicuro effetto, riesce a spaventare e indubbiamente inquieta; in questo senso, Ascher centra l’obbiettivo, riconfermandosi regista dalla mano sicura e coadiuvato, così come in Room 237, da un montaggio sapiente, da lui realizzato a quattro mani con Saul Herckis, e da uno score suggestivo, firmato da Jonathan Snipes. Quel che lascia a dir poco perplessi sono le parole delle persone che hanno vissuto, e vivono tuttora, quest’incubo in dormiveglia: pochi di loro hanno cercato un aiuto di tipo medico, c’è chi si è affidato a una cartomante, la minoranza che si è rivolta a uno psichiatra demolisce i risultati della terapia e, dulcis in fundo, coloro che erano atei si sono magicamente convertiti al cristianesimo, poiché hanno notato che la parolina magica “Gesù” era in grado di sconfiggere i babau della loro mente. In poche parole, le tesi più accreditate sono quelle del rapimento alieno e della manifestazione demoniaca, poiché “i medici sono solo bravi a dire che ci siamo immaginati tutto”. Le cause neurologiche, psichiatriche e fisiologiche vengono immediatamente abbattute come se rappresentassero l’ipotesi più assurda. Tutto ciò fa perdere ogni tipo di credibilità al documentario, rendendolo a tratti risibile, e lasciando nello spettatore la curiosità iniziale sulla vera natura del disturbo.
Ascher è regista talentuoso, documentarista dal buon intuito nella scelta degli argomenti, ma il suo mirare al mero sensazionalismo e allo spavento facile e talvolta di bassa lega, inficia inevitabilmente risultati che avrebbero potuto essere decisamente superiori. Da vedere per curiosità, ma col necessario scetticismo.
Chiara Pani