Imparando l’ars amandi
“Quant’è difficile dirsi addio” verrebbe da pensare, quasi a fare da controcanto al titolo del film di Degena Yun, A Simple Goodbye (titolo originale Gaobie). Presentato in anteprima mondiale al Tokyo International Film Festival 2015, è stato premiato alla 33esima edizione del Torino Film Festival per la Migliore Sceneggiatura (ex-aequo con Sopladora de hojas di Alejandro Iglesias Mendizábal) ed effettivamente quel piano è ben sviluppato dallo sceneggiatrice-regista. C’è un modo di mettere a tema l’addio, la relazione padre-figlia, ma anche tutte le altre relazioni parentali che si riconosce man mano che i fotogrammi si susseguono.
Assistiamo al rientro a casa di una ragazza, Sanshan (Degena Yun), dall’Inghilterra a Pechino, perché suo padre (Tu Men) è malato di cancro. Il tutto sembrerebbe una dinamica normale, ma ci viene propinata soprattutto attraverso gli occhi di lei, per cui tutto ha un sapore di “senso del dovere”. Non è semplice per Sanshan riappropriarsi del suo spazio in una casa che non sente più sua e ancor più relazionarsi con dei genitori con cui ci sono tanti non detti anche tra loro stessi. Non c’è empatia tra loro e A Simple Goodbye fa vedere proprio come gli adulti stessi debbano (ri)educarsi a provare sentimenti e ad esprimere affetto e amore dell’altro, non solo perché malato. Nella pellicola si passa da momenti in cui la macchina da presa osserva, quasi registrando la quotidianità, ad altri in cui emergono da quell’inquadratura i dialoghi e le battute così crude e vomitate, il tutto però raffreddato da uno sguardo registico che non vuole insistere sui primi piani, ma resta a distanza, talvolta sulla soglia della porta. La Yun ha tratteggiato il personaggio della ragazza come se fosse il suo alter ego e forse realizzare questo lungometraggio è stata la sua occasione per fare i conti col passato, elaborando il lutto della perdita del padre, il regista mongolo Saifu. La donna non ha timore di mostrare le disfunzioni presenti nella propria famiglia, non edulcora nulla ed è questo aspetto di verità che permette alcuni momenti di immedesimazione.
La situazione iniziale appare agli occhi dello spettatore statica, radicata con un padre incapace di comunicare, una madre (Ai Liya) iperansiosa e tendente a porre divieti nel cibo, sul fumo e chi più ne ha più ne metta. Il quadro è completato dai famigliari di lui, ovviamente in contrapposizione con la consorte, dove l’uomo si “rifugia” quasi fosse ancora un bambino che ha voglia di essere accudito da sua madre.
Verso la fine di A Simple Goodbye emerge un’altra dimensione di quest’uomo capace di dire con lucidità «le cure servono solo alla mia famiglia». Ci riferiamo al passato cinematografico. Con nostalgia rievoca, dalla posizione di “viale del tramonto”, i suoi «film coi cavalli», i western. Qui qualcosa scatta, ma non andiamo oltre…
Per essere un’opera seconda, A Simple Goodbye si sforza di cercare dei punti di originalità e personalizzazione in un plot ricorrente e in alcuni momenti ci riesce a concretizzarli. Certo, proprio per alcune scelte di messa in quadro, per la resa registica della Yun un po’ convenzionale di una ragazza chiusa nel proprio mondo, oltre che per gli sviluppi drammaturgici, non è facile che scatti il processo di identificazione nella platea di turno, a meno che non ci siano delle corde scoperte.
Maria Lucia Tangorra