Presenze
È una partita a scacchi quella che Ian Clark, con la sua opera prima dal titolo A Morning Light, gioca con lo spettatore di turno, in questo caso con quello della 33esima edizione del Torino Film Festival dove la pellicola è stata presentata in anteprima mondiale nella sezione Onde. Come in tutte le partite o competizioni che si rispettino ci sono delle regole da seguire per fare in modo che arrivino a una conclusione. Quelle che regolano la fruizione del film scritto, diretto e montato dal regista statunitense non fanno riferimento al thriller, bensì all’horror psicologico. La linea che normalmente separa i due generi è molto sottile, per cui capita di frequente che vi sia uno sconfinamento e un conseguente processo di ibridazione che porta a una fusione dei rispettivi caratteri. In tal senso, il film di Clark resta sospeso in equilibrio sulla suddetta linea, per poi scegliere di puntare quasi esclusivamente sul secondo. Ne viene fuori un’opera che sembra ricalcare il modus operandi di un Kiyoshi Kurosawa e di un cinema di natura orrorifica che lavora sull’accumulo latente di una tensione celebrale che destabilizza e spaventa. Per farlo non ha bisogno dunque di azioni efferate, di ettolitri di sangue versati e di frattaglie disseminate qua e là sulla scena, piuttosto di un vero e proprio gioco del gatto con il topo che vede il pubblico continuamente sollecitato e sbeffeggiato. Ciò si basa sulla disattesa delle aspettative, ossia sul far credere sempre a colui che guarda che qualcosa stia per accadere da un momento all’altro, un qualcosa che il più delle volte non si verificherà. Dunque, l’esplosione non avrà luogo, per lasciare spazio invece a un fragoroso disinnesco. Nel frattempo, però, l’autore avrà raggiunto il suo personale scopo, ossia quello di aver letteralmente trascinato lo spettatore in una sorta di aspirale dal quale è difficile liberarsi, anche quando si è convinti di essere entrati in possesso degli “anticorpi mentali” necessari per svincolarsi dal suddetto meccanismo. È una sensazione, questa, che durerà sino all’ultimo fotogramma e dalla quale è difficilissimo essere immuni. Maestro di una simile costruzione è stato in primis Hitchcock.
Il regista americano la mette in piedi mattone dopo mattone con un sapiente lavoro sulle atmosfere, sulle location, sui personaggi e sulle immagini. La drammaturgia di A Morning Light si alimenta di questi fattori, preferendoli alla saturazione e alla stratificazione della narrazione. Non a caso il racconto si presenta esile, ridotto all’osso e sorretto da temi, stilemi e istanze piuttosto comuni e ricorrenti nello psycho-horror old style. Il plot che ne scaturisce è di fatto scarno, ma efficace nel loro utilizzo e incentrato prima di tutto sulla sottigliezza fenomenologica. Vediamo il protagonista, tale Zach, trascorrere insieme al suo cane un periodo di relax in una grande casa in mezzo alla foresta. Si tratta di un tipo solitario che ama fare lunghe escursioni. Durante una di queste, incontra una vecchia amica di nome Ellyn, che si unisce a lui. Nei giorni successivi, nei due cresce la convinzione che qualcosa di strano si nasconda nei boschi, una presenza inusuale e inquietante che si manifesta attraverso fenomeni luminosi e sonori. A complicare il tutto, l’intrusione di una coppia di vicini di casa sospettosi. A questo punto, c’è qualcosa di inusuale o è tutto frutto della loro immaginazione? Le intersezioni tra ciò che potrebbe essere reale oppure no materializzano le minacce incombenti, per le quali diventa sempre più complesso stabilirne l’esatta natura, ancora peggio delinearne un identikit. Da dove viene il vero pericolo? È la natura che li circonda oppure un’entità aliena? O ancora, potrebbe essere semplicemente una minaccia portata da un essere umano? A voi l’ardua sentenza. L’unica cosa certa è che abbiamo a che fare con un assedio mentale che fa capo alla cosiddetta “sindrome d’accerchiamento”.
A Morning Light è un film fortemente ansiogeno, agorafobico, sensoriale e misterico, di quelli che mettono seriamente alla prova le sinapsi dello spettatore e non le coronarie. La mancanza assoluta di eventi eclatanti lo rende poco fruibile a un pubblico che non ha familiarità con questo modo di fare e concepire l’horror. Per cui, sonnolenza e noia potrebbero trasformarsi in effetti collaterali. Per quanto ci riguarda, abbiamo apprezzato il coraggio di Clark nell’aver portato sino in fondo una simile scelta, anche se qualche cedimento strutturale lungo la timeline viene a galla. Da sottolineare il lavoro sul suono che impreziosisce la confezione.
Francesco Del Grosso