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The Inescapable Desire of Roots

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VOTO: 8,5

Io vivo sempre insieme ai miei capelli

Abbiamo avuto occasione più volte, parlando del Monsters – Fantastic Film Festival andato in scena a Taranto nel 2024, di elogiare la particolare sezione curata da Massimo Causo, Vortex, costruita intorno a bizzarre ibridazioni cinematografiche e autentico spirito di ricerca. Una preziosa carrellata di intuizioni cinefile, quella così allestita, che va da Void del giapponese Yusuke Iwasaki al lisergico lungometraggio australiano The Waves of Madness, passando naturalmente attraverso le opere dei due singaporiani Mark Chua e Lam Li Shuen. La loro esotica e spiazzante rivisitazione del “body horror” l’abbiamo già introdotta, su queste pagine, segnalando il “rettiliano”, conturbante, metamorfico Chomp it! (Singapore, 2023). Mentre è datato 2024, perciò recentissimo, un altro loro cortometraggio in grado di portare il perturbante cinematografico verso alte vette: The Inescapable Desire of Roots. In tale lavoro il cortocircuito tra body horror e cinema sperimentale è qualcosa di realmente pazzesco.

Riguardo alla realizzazione del lisergico The Inescapable Desire of Roots ascoltiamo direttamente gli autori: “Un’opera personale e sperimentale che abbiamo girato in Super8, realizzata come una sorta di risposta cruda al sistema di disciplina e controllo esercitato sul corpo, sia pubblico che personale, a Singapore, analizzandolo attraverso il significato politico e storico dei capelli in questo Paese. Nel film abbiamo anche utilizzato proiezioni sovrapposte in 16 mm e Super8 delle nostre ciocche di capelli su una pellicola principale”.
In scena compare qui il solo Oliver Chong, il quale, per alcuni versi, potrebbe anche essere considerato attore-feticcio dell’ineffabile duo registico orientale. Lo ritroviamo infatti quale turbato “pater familias” in A Man Trembles (Singapore, 2021), tra i loro lavori quello che più s’avvicina ad avere un’impronta narrativa definita. Pure qui occorre aprire una piccola parentesi, giacché nel corto in questione il discorso sull’alienazione così caro ai due cineasti sconfina nella classica tematica aliena, in vera e propria Alien Abduction; seppur raffigurata, nella circostanza, in modo tutt’altro che convenzionale, attraverso forme stranianti e con neanche troppo criptici riferimenti alla profonda crisi strutturale, economica e sociale attraversata da Singapore dalla fine degli anni ’90 ad oggi.

Tornando invece alla ben più radicale, destabilizzante forma cinematografica adottata in The Inescapable Desire of Roots, il già menzionato Oliver Chong incarna qui un essere sofferente, invasato, tarantolato, completamente in balia di una spaventosa mutazione, per via della quale ciocche di capelli spuntano di continuo in ogni angolo del suo corpo, creando strutture filiformi bizzarre e oscene.
Effetti visivi da video-arte. Campi medi sgranatissimi dovuti all’uso della pellicola. Viraggi che introducono cromatismi acidi. Nudità maschile. Movenze del protagonista quasi da danza Butoh. Make-up da mimo sul viso, spesso in balia di espressioni facciali nauseate e contorte. Tali elementi conducono verso la surreale rappresentazione di uno stato di profonda alterazione psico-fisica, dal valore senz’altro metaforico sul piano esistenziale, la cui mostruosa ineluttabilità sconfinante nell’assurdo può suggerire lusinghieri paragoni e antecedenti celebri, dalle fusioni dell’umano col metallo in Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto a una parte consistente della filmografia di David Cronenberg. Tale odissea del crine riesce in appena 5 minuti a definire un inedito, perverso canone estetico, portato a compimento dalla sconcertante inquadratura finale, che rivela l’apparire sulla collina iniziale di un’informe e gigantesca massa di capelli: quasi un novello Kaiju, più ripugnante e opprimente che distruttivo in senso stretto, minacciosamente proteso verso lo skyline della metropoli asiatica.

Stefano Coccia

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