Il posto più (in)sicuro del mondo
Il focolaio domestico è universalmente riconosciuto come quel posto nel quale trovare rifugio, comprensione e protezione. Insomma, il luogo più sicuro al mondo. Ma la storia, in questo caso della Settima Arte, ci ha mostrato che non è sempre così. Filoni come quelli dell’home invasion o delle ghost-house ad esempio hanno dimostrato in più di un’occasione che le quattro mura di una casa, al di là della sua topografia, metratura e geolocalizzazione, può trasformarsi in un habitat ostile dove non mettere piede o dal quale fuggire come nel caso di quello che fa da cornice a The House di Rick Ostermann, presentata in concorso nella sezione Panorama Internazionale della 13esima edizione del Bif&st.
A scanso di equivoci, nonostante il titolo potrebbe rievocarlo, il film in questione non ha nulla a che fare con il capostipite della saga di Raimi e non appartiene nemmeno al genere horror, anche se qualcosa di orrorifico e inquietante c’è nelle atmosfere, nella location e nel mood della pellicola del regista tedesco, qui al suo quarto lungometraggio, al quale alterna esperienze sul piccolo schermo con tv movie ed episodi in serie come Das Boot. Tali venature, infatti, servono all’autore per pompare ansia, tensione e claustrofobia in un film nel quale le topografie circoscritte e la spazialità ridotta ricoprono, alla pari delle sorti delle figure che ne sono vittime, un ruolo chiave.
Nel suo thriller, basato su un racconto breve di Dirk Kurbjuweit, Ostermann ci porta nella Germania del 2029 per raccontare la storia di una casa che conosce i suoi abitanti meglio di loro stessi. Si tratta di un famoso giornalista al quale è stato vietato di esprimersi pubblicamente a causa di un articolo sul tema dell’immigrazione e di sua moglie. Il ché spinge la coppia a ritirarsi nella loro lussuosa casa per le vacanze, una villa isolata ultra high-tech dotata di un sistema chiuso affidato al controllo di un’intelligenza artificiale. Tutto sembra filare liscio all’insegna del relax se non fosse per l’escalation di violenza e del clima infuocato che anima la situazione politica del Paese, alle quali la casa domotica che li ospita si trasforma sempre più da rifugio pacifico in pericoloso avversario.
Non è la prima volta che un cervellone elettronico mette seriamente a rischio la vita di un essere umano, sovvertendo le posizioni dominanti quanto basta per assumere il comando e divenire carnefice e aguzzino. Sulla scia delle sirene d’allarme accese con i suoi scritti da Isaac Asimov, tutta la letteratura fanta-politica e di riflesso anche la cinematografia di genere hanno iniziato a riflettere sulle conseguenze dello sviluppo tecnologico e dei rischi legati all’intelligenza artificiale. Da qui una serie inesauribile di prodotti audiovisivi per il piccolo e grande schermo che hanno mostrato gli effetti collaterali, a cominciare da quel capolavoro che risponde al nome di 2001: Odissea nello spazio. Impossibile non rivedere nell’inquietante grande occhio rosso del server che gestisce la villa di The House quello celeberrimo di HAL 9000, entrato grazie a Stanley Kubrick nell’immaginario comune. Viene da sé che Ostermann ha voluto giocare a carte scoperte con una citazione piuttosto alta, ampiamente fuori dalla portata sua e del film che ne riporta la firma. Con una citazione decisamente furba, il regista tedesco si è dato la zappa sui piedi, complicandosi la vita e caricando di un peso specifico non indifferente la sua opera come sono capaci di fare solamente gli autolesionisti.
La pellicola finisce con il rimanere schiacciata da un peso insostenibile per delle spalle così minute e fragili. Sotto che uno scheletro narrativamente e drammaturgicamente incapace di farsene carico. Le tematiche affrontate nel corso della timeline, alcune delle quali molto complesse per via delle implicazioni e delle varianti che ne seguono a cominciare dal rapporto uomo-macchina e dall’attuale situazione socio-politica, vengono trattate con eccessiva sufficienza. Gettate in un calderone di genere, finiscono con il diventare concetti inespressi in un mare magnum di cose dette tanto per dire, male o solo in parte. The House è un vorrei ma non posso, che mette troppa carne al fuoco, facendo roteare l’intero discorso sulle conseguenze critiche della digitalizzazione sempre più assoluta della nostra vita quotidiana attraverso l’evocazione di un’atmosfera opprimente. Ecco che la villa di turno, nella quale si consuma un conflitto privato tra una coppia sposata, si trasforma in un habitat ostile che vuole rievocare le atmosfere di un kammerspiel horror contemporaneo, ma con il dramma al posto del terrore.
Tirando le somme si fa molta fatica a salvare qualcosa in un’opera che, al di là della fotografia di Stefan Ciupek di buona fattura e della pregevole composizione geometrica delle immagini che assecondano le linee e le superfici riflettenti e trasparenti della location, non si può considerare altro che una nave destinata a inabissata nell’oceano della dimenticanza, con gli attori protagonisti Tobias Moretti e Valery Tscheplanowa naufraghi loro malgrado.
Francesco Del Grosso