Cicli vitali
Non è affatto un film facile, The Book of Vision di Carlo Shalom Hintermann. O per meglio dire, è un’opera che può sedurre lo sguardo attraverso un’architettura diegetica e uno smalto visivo inconsueti, affiancando però alla notevole cura formale quei valori antropologici, spirituali e filosofici, che ciascun spettatore è destinato a recepire in maniera diversa, secondo la propria formazione e – soprattutto – secondo la propria sensibilità nei confronti di certi argomenti. Sono infatti cicli di vita, morte e rinascita, quelli che affiorano nell’ardita costruzione spazio-temporale del lungometraggio, sospeso tra un’algida ambientazione anglosassone contemporanea e la Prussia del Settecento. Gli stessi, magnifici attori (su tutti le presenze “nordiche” degli ottimi Sverrir Gudnason, già a suo agio nei panni del grande Björn Borg, e Lotte Verbeek) fanno la spola tra un secolo e l’altro, impersonando un momento di passaggio nella Storia della Medicina moderna che diventa emblematico di tante altre cose. In primis il conflitto (più o meno) sotterraneo tra uno scientismo esasperato e altri percorsi cognitivi, di natura magari tradizionale, misterica, magica. Altri modi, insomma, di intendere il rapporto tra mondo fisico e sfera interiore, oppure tra microcosmo e macrocosmo. Corpo e anima, volendo citare la magiara Ildikó Enyedi e quindi un altro capitolo importante della cinematografia attuale, rivolto verso condizioni esistenziali particolari, per non dire estreme.
Dopo aver aperto alla settantesettesima Mostra del Cinema di Venezia la 35° edizione della Settimana Internazionale della Critica, questo visionario lavoro è andato incontro alle reazioni più disparate, talvolta fredde e talvolta sinceramente turbate, commosse, generando incomprensione in alcuni e brillando di una luce più intensa per altri. Come era fin troppo prevedibile. Perché in questa enigmatica vicenda, che lega le ricerche compiute nel presente da una giovane dottoressa, Eva, ai contenuti del manoscritto di Johan Anmuth, un medico del 18° secolo, si colgono tracce che sfuggono alla razionalità pura per confluire in altri linguaggi: sogni, reminiscenze, visioni.
Noto è anche che Carlo Shalom Hintermann, già entrato in sintonia col titanico autore statunitense grazie ai suoi trascorsi documentaristici (cfr. Rosy-Fingered Dawn) abbia trovato in Terrence Malick un Produttore Esecutivo d’eccezione. E il regista di The Book of Vision, che durante la presentazione capitolina del film ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente due Maestri della critica, Enrico Ghezzi e il recentemente scomparso Edoardo Bruno, proprio ai Maestri sembra guardare con un rispetto misto al desiderio di emularne i passi. Se perciò la parte finale del lungometraggio coi suoi toni lirici, con quella dialettica luminosa che abbraccia essere umano e Natura, con la libertà espressiva distillata finanche nel montaggio, sembra guardare alla stessa poetica “malickiana”, nei segmenti narrativi di matrice settecentesca è una messa in scena dalle forti suggestioni “kubrickiane”, specialmente riguardo alle geometrie e alla luminosità degli interni, ad offrire al pubblico più partecipe un possibile indirizzo interpretativo.
Sempre a proposito di interpretazioni e di sostrati robusti, non si può tacere il fatto che la lunga gestazione dell’opera abbia avuto nello scrittore e film-maker Marco Saura, co-autore dello script, un fulcro assai rilevante. Pertanto vi invitiamo caldamente a confrontarvi con la lettura del suo volume, La via del fulmine, edito da Spazio Interiore. Vi troverete alcuni collegamenti folgoranti col film; ovvero con quella visione (profonda) della vita e della morte, da cui l’immaginifico parto di The Book of Vision ha poi tratto lo slancio necessario per compiersi.
Stefano Coccia