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Intervista a Carlo Shalom Hintermann e Daniele Villa

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A colloquio con il regista ed il produttore di “The Dark Side of the Sun”

Non è certo una novità che molti, tra i lavori più interessanti presenti al Festival di Roma, siano ospiti della sezione progettata da Mario Sesti, L’altro cinema – Extra. E’ stato così anche quest’anno, tant’è che ci sarebbero svariati esempi da fare, ma è proprio con The Dark Side of the Sun che abbiamo sviluppato un rapporto particolarmente empatico. Non solo perché il mix di riprese documentarie e animazione regala emozioni profonde, complice l’intensità della storia narrata, ma perché il film è stato realizzato conseguentemente a un percorso di tutto rilievo, quello realizzato negli ultimi anni dai ragazzi della Citrullo International; un collettivo romano che si è interfacciato spesso e volentieri col cinema di maestri come Malick, Kitano, Iosseliani, Kaurismäki, regalando poi sul piano del documentario (e del mockumentary) qualche altra chicca come Chatzer: volti e storie di ebrei a Venezia e F for Fontcuberta. I quattro “citrulli” (per loro stessa definizione) che compongono la Citrullo International sono Carlo Shalom Hintermann, Daniele Villa, Gerardo Panichi e Luciano Barcaroli, abituati da tempo a scambiarsi ruoli (regista, produttore, sceneggiatore, operatore, montatore, eccetera) con una certa duttilità, a seconda delle circostanze e delle necessità produttive. Nella fattispecie, ci siamo potuti confrontare con Carlo Shalom Hintermann e con Daniele Villa, che figurano rispettivamente come regista e produttore di questo loro ultimo progetto, The Dark Side of the Sun: un emozionante e mai retorico viaggio nella piccola realtà di Camp Sundown, creata in America per offrire ai ragazzi malati di Xeroderma Pigmentosum (una rara malattia che inibisce l’esposizione al sole dei soggetti colpiti, essendoci il rischio di seri e fulminei danni alla pelle) la possibilità di convivere alcune settimane instaurando una relazione più armoniosa col buio, con l’assenza pressoché totale del giorno nelle loro vite.
Sentiamo cosa ci hanno detto a riguardo Carlo, il regista, e Daniele, il produttore.

D: Il film che avete realizzato, The Dark Side of the Sun, oltre ad affascinare per il singolare cortocircuito tra realtà e scene di animazione, esercita sugli spettatori più sensibili una forte presa emotiva. Come vi siete imbattuti tu e Daniele Villa in questa storia? E quale è stato il vostro approccio, dal punto di vista umano, prima, durante e dopo le riprese?
Carlo Shalom Hintermann: Il primo contatto con la storia è stato molto semplice: leggendo un articolo sul New York Post che parlava del campo e di Caren e Dan Mahar, fondatori di quella realtà. La storia mi ha subito colpito però allo stesso tempo ero molto spaventato all’idea di scrivere un progetto incentrato sulla realtà ”eccezionale” dello Xeroderma Pigmentosum e non volevo affatto sfruttare quella realtà così complessa e delicata. Così mi sono auto-censurato per circa tre anni. Dopo una serie di esperienze abbastanza al limite, come il lavoro che ho effettuato nel braccio della morte in Texas per una serie di La7 sulla pena di morte, ho sentito che era giunto il momento di confrontarmi con quella realtà. Ho parlato del progetto agli altri citrulli (Daniele, Gerardo e Luciano) e così ho scritto il progetto. Come è nostra prassi abbiamo subito contattato i Mahar: il nostro approccio è quello di instaurare un rapporto con i protagonisti del nostro film, segnare un percorso comune e tracciare una sorta di recinto etico. All’interno di questo spazio noi e loro sappiamo cosa possiamo e cosa non possiamo fare, cosa possiamo riprendere e cosa no. Nasce quindi una relazione profonda che va ben oltre il film e in questo caso un’amicizia e un legame affettivo destinati a durare a lungo.

Una particolare suggestione emerge, nel corso del documentario, dalle scene del campo girate in notturna. Vi è una poetica della luce e dell’oscurità molto forte, cosa puoi dirci a riguardo?
Carlo Shalom Hintermann: Per questo progetto più che riprendere al buio si trattava di riprendere il buio, attraverso un totale cambio di prospettiva. L’assenza della luce era qualcosa di salvifico per i nostri protagonisti e per questo dovevamo immergerci in quella realtà. Giancarlo Leggeri, il direttore della fotografia ha lavorato moltissimo su questo, abbiamo cercato di dotarci degli strumenti necessari, un sistema di luci senza emissioni di raggi UV creato appositamente da Tecnolight, una serie di luci a fiamma concepite con l’aiuto di Robert Selen di Lanterne volanti, ma anche la pazienza di attendere che i soggetti riverberassero qualche luce casuale, di scorgerli ricavati dal buio, di attendere piccole epifanie. Questo lavoro è stato molto faticoso ma anche entusiasmante, durante le riprese avevamo la preziosa collaborazione del montatore Piero Lassandro e del colorist Gabriele Gianni che ci hanno aiutato a correggere il tiro direttamente in ripresa. E’ stato davvero un lavoro di squadra in cui ognuno ha fornito il proprio contributo durante le nostre giornate rovesciate: la notte sostituiva il giorno.

D: Cosa puoi aggiungere, invece, riguardo alle difficoltà tecniche di girare un film, in cui l’utilizzo di una illuminazione sbagliata avrebbe potuto recare danno alle già precarie condizioni di salute dei ragazzi? Quali soluzioni avete adottato, per evitare simili problemi?
Carlo Shalom Hintermann: Ho già riposto in parte nella domanda precedente. Posso aggiungere che siamo partiti dall’assenza di luce, scegliendo la camera più appropriata: la Varicam Panasonic 3700 HD che ha avuto una grande risposta. Poi abbiamo deciso che i corpi luminosi sarebbero stati gli stessi giochi dei bambini e questo ha reso gli elementi tecnici degli elementi ludici, forse sta qui il senso di tutto il film: giocare noi stessi insieme ai protagonisti. Da questo punto di vista è stata l’esperienza più ludica che abbia fatto nel girare un film, e questo ha segnato una via che spero di poter percorrere ancora.

D: Tra gli ospiti di Camp Sundown che avete filmato c’è una ragazza italiana, cosa puoi dirci di lei? E a un certo punto si nota, nel film, grande commozione per un altro giovane, che si deduce esser venuto a mancare di recente. Questo triste episodio è avvenuto durante la vostra permanenza in America?
Carlo Shalom Hintermann: Fatima è una ragazza molto timida e di una dignità non comune. E’ di origini marocchine, è nata a Casablanca e vive in Piemonte, a Cuorgné in provincia di Torino. Purtroppo nella sua famiglia un fratello e una sorella più piccoli hanno la stessa malattia. Abbiamo deciso di portarla a Camp Sundown per farle conoscere un mondo nuovo e per lei ha significato molto. Al momento sta frequentando l’Università telematica, non è riuscita a far oscurare le finestre delle aule a Torino. La sfida per lei come per molti malati di XP è rompere l’isolamento, cercare di uscire dalla prigione forzata di casa. Speriamo di riuscire ad aiutarla, frequentando Camp Sundown anche nei prossimi anni. Kevin è il ragazzo di 35 anni che purtroppo è deceduto durante le riprese del film. Era una persona straordinaria che ci ha segnato profondamente e quando purtroppo è venuto a mancare abbiamo deciso che sarebbe stato comunque protagonista del film. Crediamo che il suo spirito sia stato un elemento fondamentale del nostro lavoro e che continuerà a ispirare le nostre azioni. Viva, viva, viva Kevin!

D: Mi permetto una domanda più personale, Carlo: avendo seguito altri dei vostri lavori in passato, mi sembra che questo sia il primo in cui ti firmi aggiungendo “Shalom” al tuo nome. Ricordo anche un forte coinvolgimento, da parte tua, quando girasti il documentario Chatzer: volti e storie di ebrei a Venezia. E’ quindi un percorso di maturazione interiore che va avanti, arricchendosi di studi, riflessioni ed esperienze nuove?
Carlo Shalom Hintermann: Caro Stefano, data la nostra pluriennale amicizia da te sono benvenute anche le domande personali. Shalom in realtà fa parte del mio nome, io mi chiamo Carlo Shalom, per questioni anagrafiche dato che mio padre si chiamava Carlo Hintermann non potevamo avere lo stesso nome. Non l’ho mai utilizzato per una questione di praticità. Negli ultimi tempi però, a parte la necessità di essere distinto da mio padre nei motori di ricerca, Shalom è forse il nome a cui sono più vicino: non solo è il mio nome ebraico e al momento sono molto osservante o se vuoi profondamente connesso con le mie radici, ma allo stesso tempo il significato di “pace” che racchiude quel nome è un elemento a cui tendere e un vero lascito familiare: anche mio fratello si chiama Gabriele Shalom. In yiddish ci chiameremmo Shulim, e i nostri cuori palpitano nella terra di Ashkenaz, un luogo sopranazionale a cui congiungersi anche con la musica: io e mio fratello suoniamo infatti nel gruppo Errichetta Underground, che ha eseguito le straordinarie musiche di Mario Salvucci e quelle aggiuntive di Federico Pascucci per The Dark Side of the Sun.

D: Avrei ancora una curiosità: come Citrullo International avete avuto un compito importante nelle riprese dell’ultimo film di Malick, The Tree of Life. Cosa puoi dirci di come si è sviluppato questo rapporto di stima e fiducia?
Carlo Shalom Hintermann: Ripeto sempre la solita nenia: per vincoli contrattuali non posso parlare nel dettaglio delle riprese. E’ davvero così, però posso dirti che è stata un’esperienza davvero formativa, sia per le immagini che ho girato in proprio sia per la parte di riprese girate con Joerg Widmer, straordinario direttore della fotografia e operatore steadycam. Credo che aver lavorato con Malick sia frutto di un lungo percorso in cui abbiamo avuto diversi scambi con lui sia umani che artistici. Al momento stiamo lavorando all’ultimo capitolo del nostro libro su Malick che uscirà per la casa editrice inglese Faber & Faber, ma non so se sarà tradotto in Italia. Cosa posso aggiungere? Devo molto a lui e al suo approccio al cinema, mi ha dato grande forza e a volte un aiuto concreto nella promozione dei miei lavori.

D: Dal punto di vista produttivo, quale è stata la genesi di un lavoro complesso come The Dark Side of the Sun, quali le difficoltà incontrate durante il percorso?
Daniele Villa: La produzione di The Dark Side of the Sun è stata davvero molto complessa, per il costo del lungometraggio reso ancora più elevato dalla presenza dell’animazione nel film e per la necessità di non aspettare a chiudere il piano finanziario e poi partire – il tempo tristemente non è un fattore da poco, nella vita dei malati di XP. Ad ogni modo, come si addice a noi Citrulli – che non siamo produttori ‘puri’, ma quattro registi che si scambiano i ruoli di regia e produzione sui differenti film, difendendo i progetti comuni – ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo messi al lavoro! La prima cosa da dire è che abbiamo dovuto difendere inizialmente con molta veemenza l’approccio di Carlo, che non era né pietistico, né intendeva spettacolarizzare la vita dei malati di XP. Quindi abbiamo dovuto allontanare tutti i possibili partner che dei bambini volevano fare dei ‘piccoli vampiri’ da esibire in un freak show mediatico. Era fondamentale liberare il campo da ogni possibile ambiguità. Questo ci ha permesso di trovare poi i partner che hanno abbracciato senza riserve il film. Il fondo MEDIA dell’Unione Europea, che ci ha sostenuto sia nello sviluppo che nel completamento del film, e poi Rai Cinema, la cui adesione al progetto ci ha dato una forte credibilità internazionale. Di seguito è entrata la televisione nazionale giapponese NHK, un onore per un film con un’animazione di respiro nipponico, quella danese DRTV e la finlandese YLE. Tutte conquistate con tre anni di presenza nei mercati internazionali e una grossa testardaggine! In seguito abbiamo ottenuto la sponsorizzazione dell’IFOM, di AB MEDICA e il sostegno di MUS-E ROMA, un associazione che porta laboratori d’arte nelle scuole, che con MUS-E ITALIA ci permetterà di organizzare ogni anno dei workshop per i bimbi al campo, anche dopo la fine delle riprese. Nonostante questo, a un certo punto ci sono mancati dei finanziamenti che davamo per certi, e ce la siamo vista davvero brutta!

D: Come ti sei trovato a coordinare insieme a Carlo le riprese sul campo con un lavoro di post-produzione che immagino particolarmente delicato, a partire da un montaggio che doveva integrare nella maniera più naturale possibile i lunghi segmenti di animazione?
Daniele Villa: Da un certo punto in poi il mio lavoro, superate le riprese in cui sono stato un pazzo factotum al campo, perché ero l’unico elemento di produzione ed insieme l’organizzatore dei workshop per i bambini (da qualche anno mi dedico con piacere anche a questa attività), è stato questo: mi sono occupato principalmente di gestire nello studio Citrullo con Lorenzo Ceccotti il ristretto ed eroico team che ha creato l’animazione del film: gli animatori, i coloristi, la storyboard artist e chi si è occupato del rendering. Per realizzare in soli sei mesi l’animazione presente nel film hanno dovuto praticamente non dormire mai a casa, quindi a un certo punto nel nostro ufficio c’erano solo sacchi a pelo e panni stesi nel corridoio, barbe lunghe e vita di trincea. E’ stato molto bello condividere con Pamela Poltronieri, Giorgia Velluso, Fabio Ramiro Rossin, Mariachiara Di Giorgio, Irene Piccinato, Francesco Leonzi, Dario De Marinis e Roberto Calcaterra questa esperienza. Potersi sentire come in un romanzo di Conrad a due passi dalla Casilina è un’esperienza imbattibile.

D: Sempre per quanto riguarda l’animazione, come si è sviluppata la collaborazione con la Rainbow di Iginio Straffi?
Daniele Villa: Come ti dicevo, ad un certo punto sono mancati i finanziamenti che attendevamo e ci siamo trovati con un grosso buco di budget. Eravamo disperati. Dovevamo andare avanti, anche per gli impegni presi con gli altri referenti, ma come? Grazie all’interessamento di Mauro Uzzeo, Art Director di Rainbow CGI, che ci ha presentato con grande determinazione, abbiamo trovato un’insperata quanto generosissima risposta da parte di Iginio Straffi. Il quale ha deciso di salvare il progetto, permettendoci di chiudere il piano finanziario. E, da gran signore e da imprenditore lungimirante, non ha voluto, pur essendo un leader mondiale dell’animazione, in alcun modo interferire nel processo creativo, dandoci fiducia. Oltre che averci permesso di chiudere il film, ci ha dato speranza: in Italia c’è ancora chi investe sul futuro, sui giovani autori, sulle piccole case di produzione, sul lavoro e sul talento.

D: Per finire, perdona il taglio generico e forse banale della domanda, ma quale è stato l’arricchimento umano provato grazie a questa esperienza?
Daniele Villa: Enorme. Siamo diventati in modo molto naturale parte di una comunità. Per quanto mi riguarda ho imparato che non c’è limite e che l’amore incondizionato unito alla forza di volontà non possano valicare. Prima pensavo fosse in buona parte un concetto retorico, ora mi sembra l’unico modo con cui dedicarsi a chi si ama o a ciò che si ama. Inoltre ci siamo resi conto con Carlo di quanto queste persone, pur nella loro solitudine, abbiano grazie al campo una comunità di riferimento, una famiglia allargata che si prende cura di loro, con cui condividere la propria vita. Cosa che manca a molte persone non malate, ma sole, che forse paradossalmente soffrono di più per la loro condizione,

Stefano Coccia

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