L’amore genitoriale
Per quanto la pandemia del coronavirus abbia creato difficoltà organizzative, incertezze fino all’ultimo momento e anche uno stato d’animo inevitabilmente differente rispetto a quando non esisteva. Se si può trovare un elemento positivo rispetto alla densa programmazione che solitamente caratterizza la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è stata l’opportunità quest’anno di incastrare qualche titolo in più (essendo stato ‘costretto’ il direttore Barbera a diminuire il numero di opere per permettere maggiori repliche). In quest’ottica siamo stati molto contenti di essere riusciti ad assistere a Listen di Ana Rocha de Sousa, insignito del Premio Speciale della Giuria Orizzonti e del Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima ‘Luigi De Laurentiis’.
Nell’East End di Londra, Bela (Lúcia Moniz, vista in Love Actually) e Jota (Ruben Garcia), una coppia portoghese con tre bambini, fatica a far quadrare i conti arrivando sempre più ai limiti della sopravvivenza – a tratti torna in mente Sole cuore amore di Daniele Vicari, per quanto la vicenda presenti dei punti differenti, li accomuna la questione dello spremersi per il lavoro per (soprav)vivere e quale sia il limite oltre cui non andare. Certamente nel caso di questo esordio presentato in Orizzonti, un accento particolare viene posto su come vengano trattati e ‘controllati’ i migranti e sul sistema giudiziario. Quando a scuola si verifica un malinteso con la loro figlia sorda (livido sulla schiena), i servizi sociali si mostrano preoccupati per le condizioni in cui vivono i bambini. Questo crea i presupposti per dar vita a una battaglia (sfiancante) da parte di questi genitori migranti che cercano di fare di tutto per tenere unito il nucleo familiare che hanno creato, al di là dell’apparenza e delle effettive difficoltà economiche.
Il titolo, in questo caso, gioca su ben tre piani: ‘denuncia’ l’incapacità di ascolto da parte di chi dovrebbe farlo per professione (ma forse si è assuefatto e vuole solo eseguire ‘il proprio dovere’), invita la platea di turno ad ascoltare a tutto tondo (non col mero sento dell’udito) e si riferisce alla sordità della piccola Lu (interpretata con dolcezza da una bambina realmente priva di udito, Maisie Sly), che sembrerebbe sia quella con più difficoltà ad ascoltare (e comunicare). Invece è lei a insegnarci più di chiunque altro a recuperare «lo stupore essenziale, che avrebbe un bambino se, nel nascere, si accorgesse che è nato davvero…» scriveva Pessoa.
«Ho sentito la necessità di realizzare Listen non solo come cineasta, ma anche come madre. Le forme e le sfumature dei diversi lati di una storia, come una sorta di danza tra giusto e sbagliato, mi interessano molto. La cultura e la vita ci strutturano per farci comportare correttamente e rientrare in determinate categorie, ma nulla è esattamente ciò che sembra. Non è così semplice. La capacità di entrare nei panni di qualcun altro può favorire un cambiamento. Valutare in modo astratto spesso dà adito a errori. La separazione come misura preventiva è un punto interrogativo per le mie convinzioni. L’unione, il sostegno e la compassione possono far ottenere risultati migliori. Questo film per me è una dolorosa esplorazione del modo in cui vediamo, di ciò che giudichiamo o crediamo e di cosa è effettivamente vero», ha spiegato la regista portoghese. Da questo intervento si intuisce quanto lo sguardo dietro la macchina da presa sia stato pieno di tatto e, parallelamente, di un’incisività che non vuole ‘edulcorare’ certe realtà (evocandoci, in parte, Ken Loach); ma diventa anche universale nel momento in cui ci fa empatizzare con la storia che ha scelto di raccontare.
Tutti gli interpreti, a partire dai due che danno corpo alla mamma e al papà con grande dignità, danno vita a un’opera che fa riflettere sulle condizioni sociali in cui ci si possa ritrovare a vivere e che ciò possa essere determinato anche ‘solo’ dalla condizione di immigrazione in una città che dovrebbe essere accogliente. Oltre al caso specifico, però, il lungometraggio ha la potenza di porre domande anche sulla nostra realtà e su un approccio umano che dovremmo recuperare, imparando magari da quell’apertura di braccia di Lu.
Maria Lucia Tangorra