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Symptoma

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VOTO: 6.5

Come in un limbo

Direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente, passando per un duro realismo o una chiave onirica spiazzante e imprevedibile, la cinematografia ellenica, con le opere firmate dalla stragrande maggioranza dei suoi esponenti più o meno illustri, continua a riflettere come uno specchio – a volte chiaro e a volte distorto – l’odierna instabile situazione sociale, economica e politica che la nazione dalla quale nasce sta attraversando ormai da decenni. Tale bisogno di esprimere con parole e immagini la propria condizione sembra essere diventata una vera e propria esigenza, epidermica quanto viscerale. Di conseguenza, la Settima Arte si è fatta portatrice di storie, vissuti, esperienze, stati d’animo ed emozioni (paura, angoscia, incertezza e spaesamento) che riguardano l’individuo e le sue possibili aggregazioni (lo Stato, la famiglia e il posto di lavoro). In Symptoma, presentato in anteprima internazionale alla 33esima edizione del Torino Film Festival nella sezione Onde, Angelos Frantzis legge in controluce il destino della Grecia contemporanea e lo fa con un film cupo ed estremamente concettuale.
Frantzis porta sul grande schermo un thriller dalle venature orrorifiche e dagli accenti fantasy, che fa eco a David Lynch e a Kiyoshi Kurosawa, anche se per una serie di analogie la mente torna a film come La quinta stagione o Evolution. Le atmosfere sospese e rarefatte creano una forte sensazione di angoscia persistente, dovuta principalmente al potere evocativo di certe immagini che richiamano costantemente una serie di paure ataviche.
Già il titolo, “sintomo” appunto, è una precisa lettera d’intenti sottoscritta dal regista. Un titolo, questo, che può dire molto e allo stesso tempo assolutamente nulla. Nelle intenzioni dell’autore c’è la volontà di parlare dei nostri demoni interiori e per farlo costruisce le fondamenta di una sorta di saggio che cerca di scandagliare il lato oscuro e sconosciuto dell’esistenza umana. Frantzis scaraventa il pubblico in un’isola remota lontana dalle metropoli, dove piove sempre. Lì fa la sua comparsa una creatura singolare che indossa una giacca di pelle, con lo sguardo fisso, gli occhi che brillano nel buio e la testa di coniglio. Chi la incontra finisce con l’impazzire. Gli abitanti dell’isola cercano aiuto in una ragazza, l’unica che sembra in grado di affrontare la misteriosa creatura. La ragazza intraprende così una caccia spietata, ma la ricerca metterà a dura prova la sua fede e rivelerà un legame inatteso con la creatura.
Ed è in questa terra di nessuno che il cineasta di Atene, qui alla sua quarta prova dietro la macchina da presa sulla lunga distanza (uno su tutti il folgorante e magnetico Into the Wood del 2010), costruisce i vari livelli di un’opera stratificata, di quelle che per essere comprese fino in fondo richiedono uno sforzo immane da parte dello spettatore, lo stesso che il più delle volte non è detto che sia disposto a stare al gioco, ad uscire dal guscio dove abitualmente si va a rifugiare e ad accettare che la fruizione solitamente passiva venga ribaltata diventando attiva. Sta alla platea di turno, infatti, il compito di trovare una propria chiave di lettura così da poter penetrare nelle labirintiche maglie drammaturgiche dello script, uno script da decifrare e poi ricomporre pezzo dopo pezzo sino ad ottenere il senso del tutto. Un simile modus operandi tende ad allontanare lo spettatore medio, o meglio quello che non è abbastanza preparato a un approccio alla materia di tipo astratto, prettamente celebrale e orgogliosamente sofisticato. È a tutti gli effetti una prova ostica da affrontare per tutti coloro che non sono abituati a frequentare un certo tipo di cinema fatto di frammentarietà ed ellissi, lunghi silenzi ed estenuanti momenti di attesa. Al contrario, chi ha dimestichezza avrà modo di confrontarsi con un’operazione tanto affascinante quanto drammaturgicamente potente. Per quanto ci riguarda, riteniamo Symptoma un’opera assai complessa, non sempre accessibile, a tratti ostile, ma che per qualche strano e misterioso motivo, che a distanza di tempo dalla visione ci è ancora sconosciuto, ha calamitato a sé la nostra attenzione. Di fatto, è una maniera di procedere molto rischiosa, ma al regista va riconosciuto il coraggio di avere proseguito diritto per la sua strada senza ripensamenti, mantenendolo coerentemente sino all’ultimo fotogramma rivelatore. Forse è questa coerenza ad averci sorpreso più di ogni altra cosa. Forse è questa coerenza l’oscuro motivo che ci è ancora sconosciuto e che ci ha spinto a non distaccarci dalla visione, anche quando la tentazione si faceva sempre più irrefrenabile.

Francesco Del Grosso

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