Gente di mare
Ragazzini, rigorosamente maschi, in un villaggio su un isola remota persa chi sa dove nell’oceano, vivono insieme alle loro madri, giovani ed eteree. Nicolas, dieci anni, è uno di loro. Non si vede l’ombra di un uomo adulto. A picco sulla costa c’è un ospedale dove i bambini sono sottoposti regolarmente a misteriosi controlli e trattamenti. Nel mentre strani riti notturni coinvolgono le “madri” e il mare.
È sufficiente gettare un’occhiata sulla sinossi di Evolution per lasciarsi immediatamente catturare da questo “(s)oggetto” cinematografico ibrido non meglio identificato, nel quale horror, thriller, fantascienza e dramma, si fondono senza soluzione di continuità, tanto da non permettere a colore che vi entrano in contatto di poterlo ricondurre a un genere preciso. La curiosità nei confronti della pellicola di Lucile Hadžihalilović inizia da subito a impossessarsi dello spettatore, noi compresi che lo abbiamo incrociato durante la 33esima edizione del Torino Film Festival, all’interno della sezione After Hours.
Quella scritta e diretta dalla regista franco-marocchina si rivela un’opera amniotica e terribilmente inquietante, costruita su un racconto di iniziazione ed evoluzione impastato di surrealismo, paure ataviche, desideri primordiali, dolore della nascita e incubi di mutazione. Le suggestioni cinematografiche e non evocate, mescolate alle tante sensazioni scatenate dalla sua visione, sono molteplici e mutevoli, di quelle difficili da scrollarsi di doso poiché capaci di restare attaccate alla retina e alla mente del fruitore anche dopo lo scorrere dei titoli di coda. La linea mistery è la colonna portante che sorregge in maniera ottimale l’isoscheletro dell’architettura drammaturgica, anche se con qualche passaggio a vuoto e digressione di troppo che ne rallentano eccessivamente il fluire. Ma è in primis la fascinazione che scaturisce dalle ambientazioni che fanno da cornice alla vicenda ad elevare il tasso di angoscia e tensione del magma narrativo. Le location dove avvengono i fatti sanno essere, infatti, bellissime e allo stesso tempo maledettamente spaventose. La Hadžihalilović è bravissima nel trasferire sullo schermo questa contrapposizione, giocando costantemente sulle due facce della stessa medaglia e su un “In and Out” che inietta a fasi alterne sensazioni di claustrofobia e agorafobia. In questo modo, “mondi” come l’oceano, l’isola, il focolaio domestico, il villaggio e l’ospedale, mutano dal giorno alla notte, trasformandosi da luoghi ospitali, ordinai e rassicuranti, in “cloache” e “ventri” pericolosi e malvagi dove i corpi dei personaggi vengono violati, (ri)generati e alterati. Evolution deve molto della sua riuscita proprio alle ambientazione scelte e al modo in cui queste vengono utilizzate e impresse sullo schermo. In tal senso, un grande plauso va alle immagini e alla resa cromatica della fotografia firmata da Manu Dacosse, che arricchisce il lavoro dietro la macchina da presa di una regista che aveva già messo in mostra il suo stile e le sue capacità tecniche undici anni or sono con il pluri-premiato Innocence. La varietà dell’offerta in termini di soluzioni visive, alternata al rigore formare che emerge dalla costruzione estremamente curata di ogni singola inquadratura, sono l’anello forte di un ingranaggio che si inceppa solo in prossimità di un epilogo che non soddisfa pienamente perché non rende piena giustizia al precedente lavoro di scrittura e messa in quadro.
Da sottolineare anche il notevole apporto offerto dal suono, vettore di un silenzio che attanaglia, ma soprattutto veicolo con e attraverso il quale il montaggio acquista ancora più sostanza per quanto concerne il crescendo della suspense. Quest’ultima trova anche una spalla ideale nel valzer di corpi, gesti e sguardi regalati alla platea dalle intense performance dei bravissimi interpreti (uno su tutti quella del giovanissimo Max Brebant nei panni di Nicolas).
Francesco Del Grosso