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Un posto sicuro

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VOTO: 8

Dolore Eternit

Un po’ come le pagine di disambiguazione messe a disposizione da Wikipedia, il titolo stesso del lungometraggio d’esordio di Francesco Ghiaccio rimanda, nella sua voluta e arguta ambiguità semantica, a due problematiche complementari: la sicurezza del posto di lavoro e l’esigenza di vivere in un ambiente sano, pulito. Complementari, perché quelli che dovrebbero essere due diritti inalienabili sono divenuti nella nostra società (post)industriale i termini di un ricatto vile e dagli esiti devastanti, tanto per la popolazione che per il territorio; il ricatto, cioè, che per decenni certe grandi aziende hanno cinicamente e impunemente portato avanti, nel nome di quella criminale logica del profitto fatta passare avanti a inaudite sofferenze personali e famigliari, alla crescita esponenziale dei tumori, alle migliaia di morti che da tempo non si possono più definire semplicemente “sospette”, poiché persino quello sarebbe un gesto di complicità. Vedi Taranto. Vedi Terni. E vedi soprattutto Casale Monferrato, dove l’amianto e le spregiudicate politiche produttive della Eternit hanno prodotto in qualche decennio un autentico bollettino di guerra. Una strage rimasta finora impunita, questa, considerando che i primi processi avevano portato a condanne piuttosto dure nei confronti dei massimi dirigenti della fabbrica, condanne che la sentenza emessa nel 2014 dalla Corte di Cassazione ha poi completamente annullato, facendo cadere tali crimini in prescrizione. Come a ribadire, per l’ennesima volta, i limiti e l’asservimento a determinati interessi di classe della giustizia borghese. Questo, comunque, è il contesto entro il quale si muove l’opera prima di Francesco Ghiaccio, Un posto sicuro.
Ed è un film di finzione importante, necessario, da difendere e sostenere a spada tratta, quello realizzato dal cineasta piemontese, che ha all’attivo svariati spettacoli teatrali e cortometraggi, ma che soprattutto nel Monferrato ci vive da quando era bambino e della fabbrica, chiusa nel 1986, non si sentiva parlare nei termini in cui se ne parla oggi; anche perché la reale entità dei danni alla salute e all’ambiente da essa creati è stata resa nota solo successivamente.

Sarà anche per l’empatia maturata nel corso degli anni, in ogni caso l’autore è riuscito nel piccolo miracolo di dar vita, differentemente da molti altri prodotti d’impegno civile realizzati nel nostro paese, a un’opera cinematografica genuina, sincera, frutto di serie ricerche sul campo, per quanto in grado poi di saldare l’aspetto della denuncia a una drammaturgia articolata, con indubbia passione, intorno ad altri snodi narrativi altrettanto significativi: lo spezzarsi del dialogo tra generazioni non più caratterizzate dagli stessi obiettivi e stili di vita, il riaffiorare dell’affetto filiale di fronte alla malattia, persino quella umbratile e sofferta storia d’amore tra i due giovani protagonisti che, una volta tanto, appare meno scontata, meno “codificata”, che in altre pellicole similmente orientate.
Figura cardine di tutta la narrazione è quella di Luca, portato sullo schermo con grande personalità da Marco D’Amore, già protagonista di alcuni lavori teatrali di Ghiaccio e artefice, insieme a lui, dello script di Un posto sicuro. Fin dalle prime scene si viene a contatto con lo spaesamento, con la difficoltà a relazionarsi con gli altri di questo giovane del Monferrato, sensibile, ombroso, solo a tratti euforico (e spesso per via di qualche eccesso alcolico), che a un certo punto ha preferito buttare via una promettente carriera teatrale, tornando nel paese d’origine e mettendosi a fare per qualche soldo l’animatore alle feste. Proprio durante una festa di compleanno conoscerà Raffaella (l’incantevole e qui credibilissima Matilde Gioli), ragazza che resterà subito attratta da quei modi così particolari, forse perché in essi ha colto un disagio non troppo diverso dal suo. Tutto ciò, mentre al padre di Luca (un Giorgio Colangeli dalla forza interpretativa impressionante, ma questa non è più una novità), ex operaio della Eternit che in gioventù rinunciò proprio al sogno di fare l’attore, pur di entrare in fabbrica ed assicurarsi un minimo di sicurezza economica, è stato appena diagnosticato un male incurabile. La relazione tra genitore e figlio è da anni in crisi, crisi determinata da un senso di delusione reciproca. E anche il riallacciarsi del loro rapporto sarà segnato, all’inizio, da profondi contrasti. Ma la comune passione per il teatro, il rispetto per la malattia del padre, il desiderio di capire quanto sia stato rovinoso per lui e per gli altri operai aver lavorato per un’industria che non tutelava in alcun modo la salute dei suoi dipendenti, saranno per Luca il punto di partenza di un percorso, nel quale il dramma personale e quello collettivo sono destinati a fondersi inesorabilmente.

Si impongono ora alcune riflessioni.
La sensibilità con cui viene tratteggiato il rapporto tra un padre al termine del suo percorso terreno e un figlio interiormente deluso dalla vita, ma che strada facendo troverà il coraggio di invertire la rotta, affidandosi proprio al teatro e al recitare nell’interesse della comunità quali elementi di riscatto personale, non poteva non ricordarci un altro film italiano che recentemente ci era piaciuto molto: Io, Arlecchino, di Giorgio Pasotti e Matteo Bini. Pure lì duetti notevolissimi tra due attori in stato di grazia, Roberto Herlizka e lo stesso Pasotti. Pure lì la funzione catartica esercitata dal palcoscenico.
Naturalmente più alti sono gli obiettivi raggiunti da Un posto sicuro, così come di maggior fascino e complessità è la costruzione drammaturgica di un film, che, partendo dalle testimonianze raccolte in loco, sa mescolare molto bene una fiction cinematografica dal valore emozionale molto forte con la prassi di un aspro, duro film di denuncia, dove confluiscono anche tracce (semi)documentaristiche: vedi ad esempio l’ottima scelta dei vecchi filmati di repertorio girati in fabbrica, filmati che rendono subito evidente in quali condizioni assurde, pericolose, si era costretti a lavorare.
Per concludere, un’opera di finzione come Un posto sicuro ha dimostrato come l’onestà di fondo, dimostrata qui dagli autori, possa portare a drammatizzare efficacemente fatti spinosi che, fino ad ora, solo pochi documentari avevano avuto il coraggio di affrontare e di sottoporre al giudizio dello spettatore; tra questi ci piace ricordare Indistruttibile di Michele Citoni, accurato lavoro sulle morti da amianto e su altri aspetti della tragedia con epicentro a Casale Monferrato, che nel 2005 partecipò al Genova Film Festival ottenendo una Menzione Speciale a suo modo emblematica, in quanto assegnata dalla Giuria dei Giovani.

Stefano Coccia

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