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Parola di Dio

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VOTO: 9

Il Verbo si fece Cinema

È parola del Signore. Andate, ma non in pace. Grazie a una trovata registica di assoluta semplicità, oltremodo coerente ed efficace nella sua rigida applicazione, ogni citazione biblica del protagonista (o di quegli interlocutori disposti, seppur sporadicamente, ad accettare la sua sfida) appare “stampata” sullo schermo, in Parola di Dio di Kirill Serebrennikov. Quando cioè il giovane Veniamin o qualche altro personaggio si trova a proclamare (e succede piuttosto frequentemente) un versetto della Genesi, dei Vangeli, degli Atti degli Apostoli o di altri capitoli della Bibbia, la fonte di tale citazione viene subito svelata con opportuna didascalia, pronta a far capolino fugacemente in qualche angolo dell’inquadratura. Spiegato così potrebbe sembrare quasi un vezzo autoriale o, per l’appunto, un eccesso di didascalismo. Mentre nella folgorante, incalzante opera cinematografica del regista russo è indice invece di un’osmosi perfetta: il Verbo viene così a incarnarsi nelle azioni e nel pensiero di un personaggio stravolto, iperbolico, reso a sua volta specchio (deformante) di una società alla deriva e in balia di conturbanti spinte regressive.

Temi ponderosi e una forma in tutto e per tutto adeguata allo scopo, verrebbe da dire. Tutto questo però non ci deve sorprendere. Già agli esordi Serebrennikov aveva dimostrato di possedere tali doti: per chi ancora ne ha memoria, il suo Playing the Victim è il film che al termine della primissima edizione del Festival di Roma vinse il Marc’Aurelio d’Oro. C’è chi pensò allora a una “meteora” di passaggio. Eppure il cineasta russo, già noto nel suo paese per essere uomo di teatro brillante e fuori dagli schemi, aveva saputo realizzare un lungometraggio di tutto rispetto, capace di fondere un’impalcatura teatraleggiante con spunti eterogenei, orientati a indagare con sottigliezza sulle molteplici inquietudini della società d’appartenenza.
Ebbene, potremmo tranquillamente asserire che una simile fiammella, promettente di suo, in Parola di Dio si è fatta incendio. Ancora una volta Serebrennikov è parso determinato non a nascondere, ma a valorizzare l’impronta teatrale del proprio lavoro, che in questo caso deriva (con una serie di opportuni accorgimenti e adattamenti, a partire dalla localizzazione geografica) da una pièce di Marius Von Mayenburg. Lunghi piani-sequenza che impegnano allo stremo gli attori. Dialoghi serrati e taglienti come lame. Luoghi il cui allestimento scenico fagocita lo sguardo dello spettatore. Ma il linguaggio cinematografico del russo nel frattempo si è ulteriormente raffinato: tocchi stranianti (come la splendida sequenza subacquea nella piscina della scuola) cambiano il ritmo e fanno crescere la tensione emotiva dell’opera, calibrate scelte di montaggio amplificano il valore e la risonanza di determinate scene, immagini fortemente icastiche tendono poi a racchiudere il senso più profondo dell’intera operazione. Già, perché Parola di Dio si configura innanzitutto quale raccontino allegorico dalle conseguenze grottesche, macabre, persino sulfuree, nonostante sia il “Creatore” l’oggetto del contendere (o proprio per questo), in cui l’esigenza di una guida autoritaria, la presenza pervasiva della Chiesa Ortodossa e dei suoi sempre più spavaldi “testimonial”, una devastante crisi di valori e l’impressione radicata di vivere in un’epoca di transizione vengono a dirci molto della Russia contemporanea. Tra risatine sarcastiche e crisi esistenziali. Tra farsa e tragedia.

Tutto avviene nella cornice grigia dell’odierna Kaliningrad. Protagonista del lungometraggio, come si accennava prima, è un adolescente di nome Veniamin; tanto mostruoso appare il suo personaggio, quanto un autentico mostro di bravura è l’attore chiamato a impersonarlo, ossia Petr Skortsov, che come altri giovanissimi del cast si è formato (bene) a teatro, mente gli adulti (parimenti carismatici, motivati) sono volti già noti al pubblico russo per le loro apparizioni cinematografiche e televisive. Il ragazzo, Venja, non solo è totalmente ossessionato dalla fede cristiana, ma poco a poco porterà a termine un piccolo “miracolo”, ben diverso da quello tentato, con risultati opinabili, in virtù della evidente follia di natura cristologica cui è soggetto, e cioè guarire gli storpi. Il vero miracolo sarà al contrario contagiare con le proprie idee, meglio tuttavia chiamarle farneticazioni, gli stessi ambienti che prima lo guardavano con sospetto: a cominciare da un istituto scolastico che oscilla di continuo tra anarchia, clima dissoluto e tentazioni autoritarie, per poi plagiare la madre stessa, all’inizio giustamente intimorita dagli improvvisi e in apparenza sconclusionati deliri mistici del figlio.
Ultimo e fragile baluardo della ragione: un’indomita insegnante di biologia, Elena Lvovna (Victoria Isakova), che nel tentativo di arginare i comportamenti sempre più spregiudicati e aggressivi dello studente finirà però per ritrovarsi isolata, arrivando persino a essere sbeffeggiata dalla preside e dal resto del corpo docente. Tutto ciò in un crescendo continuo di situazioni paradossali, da teatro dell’assurdo. Ed è così che viene a prendere forma una metafora potente, applicabile sia all’impronta censoria, repressiva e di fatto totalitaristica ravvisabile in generale nelle religioni monoteistiche (lo stesso autore, in un’intervista, ha voluto sottolineare quanto si senta invece vicino alla differente e meno dogmatica forma di spiritualità, rappresentata per lui dal Buddismo), sia al suo concorrere a quel clima di smarrimento e di sotterranea violenza psicologica (sempre pronta, comunque, a degenerare in violenze fisiche), percepibile a tratti nella Russia di oggi.

Un film come Parola di Dio offre dunque la conferma della grande maturità espressiva raggiunta oggigiorno dai principali cineasti russi, capaci di generare con le proprie opere uno sguardo fortemente critico, all’occorrenza cupo, alleggerito però da una certa ironia di fondo e dall’uso estremamente consapevole del mezzo cinematografico. Vengono subito in mente gli ottimi Leviathan di Andrey Zvyagintsev e Durak di Yuri Bikov. Riguardo a quest’ultimo, molto ci aveva suggestionato l’emblematica carrellata notturna con in sottofondo un pezzo dei Kino, leggendaria rock band sovietica capitanata un tempo da Viktor Tsoy. Analogamente nel film di Serebrennikov c’è una sequenza di notevole impatto, che con beffarda e sarcastica solennità chiama in causa la Croce, introdotta qui in modo ruvido, impertinente, da un gran pezzo dei Laibach, God is God. Ecco, sono anche scelte del genere a mostrarci come in Parola di Dio (il cui titolo originariamente era (M)uchenik, ammiccante gioco di parole dove risultano coinvolte le parole russe ‘uchenik’ – studente – e ‘muchenik’ – martire-) certe estemporanee intuizioni registiche, il ragguardevole piano simbolico del racconto e una urgenza narrativa fortemente sentita abbiano dato vita, grazie anche ad interpreti assai preparati, a un oggetto filmico dalla carica dirompente.

Stefano Coccia

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