Dentro la notizia
Il titolo dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Tim Fehlbaum, nelle sale dal 13 febbraio 2025 dopo l’anteprima mondiale nella sezione “Orizzonti” dell’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e le candidature ai Golden Globe (miglior film drammatico) e all’Oscar (migliore sceneggiatura originale), è già di per sé un messaggio chiaro e diretto di ciò che da lì a poco scorrerà sullo schermo. La data alla quale si fa riferimento in tal senso è una di quelle che non si può e non si deve dimenticare, impressa per la gravità dei fatti e la loro portata a caratteri cubitali e in maniera indelebile nella memoria collettiva e sulle pagine di Storia. In quella giornata d’estate della seconda settimana dei Giochi Olimpici di Monaco di Baviera del 1972, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati agli atleti israeliani del villaggio olimpico, uccidendone subito due che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra. Un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia locale portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, di cinque fedayyin e di un poliziotto tedesco.
Il risultato, come tristemente noto, fu un atroce massacro trasmesso in mondo visione per 21 drammatiche e interminabili ore. Tanto durò un momento che ha mutato per sempre anche la storia della televisione, trasformando il modo di fare informazione in diretta, con quasi un miliardo di persone incollate allo schermo a seguire l’evolversi dei sanguinari eventi. Ed è su questo aspetto che si focalizza il quarto film del regista svizzero, scritto a sei mani con Alex David e Moritz Binder, che con September 5 ha cambiato totalmente registro e genere passando dalla fantascienza di film barcollanti come Tides e Apocalypse a un dramma storico teso come una corda di violino che lo ha portato a confrontarsi con la realtà e con fatti veramente accaduti, ma anche con tematiche purtroppo ancora attualissime come il conflitto israelo-palestinese. Lo fa riavvolgendo le lancette dell’orologio fino a quel maledetto 5 settembre del 1972, quando le lancette segnavano le 4:30 del mattino e si scatenava l’inferno. Ed un paio di ore prima che prende il via un racconto al cardiopalma di un’opera che vuole fare luce su un aspetto di quella tragica giornata, ossia il ruolo dei media, concentrandosi sulla prospettiva del reporter e confrontandosi con i dilemmi morali, etici, professionali e, in ultima analisi, psicologici dei giornalisti. Ne viene fuori un film sul potere della televisione, come era già stato per The Eichmann Show – Il processo del secolo, che osserva la storia dalla cabina di regia, sancendo l’unione tra testimonianza, giornalismo e spettacolo.
Il punto di forza e al contempo la caratteristica della pellicola, che di fatto le dona una ragione in più di essere e di esistere, è propio la speciale angolazione da cui viene narrata e mostrata la storia, una prospettiva di certo non nuova cinematograficamente parlando, ma sicuramente diversa da quelle utilizzate da coloro che si sono occupati precedentemente del massacro di Monaco di Baviera. Se da una parte Kevin Macdonald con il documentario vincitore dell’Oscar, One Day in September, lo ha ricostruito filologicamente attraverso testimonianze e materiali di repertorio, dall’altra Steven Spielberg in Munich lo ha rievocato per spingersi poi all’indomani del 5 settembre, concentrandosi sul piano segretissimo messo in atto dal Mossad che prevedeva la ricerca e l’eliminazione di tutti i componenti del commando responsabile, al fine di vendicare la morte dei loro connazionali. Il racconto di September 5 è dunque quello della copertura mediatica da parte del team di ABC Sports di un evento che da reportage sportivo si tramuta in un battito di ciglia in cronaca geopolitica, ricostruito sul grande schermo con grande autenticità e realismo sia nella messa in scena che nella messa in quadro. Merito di un lavoro accurato sia in fase di scrittura che di trasposizione, che trova nell’ottimo cast (tra cui segnaliamo le performance di John Magaro e Peter Sarsgaard) e nel contributo di Fehlbaum il terminale perfetto. Quest’ultimo dirige con sicurezza un vero e proprio kammerspiel che costringe lui, la macchina da presa e gli interpreti a fare gli straordinari in una manciata di metri quadri, quelli degli studi televisivi e della cabina di regia. Il cineasta e gli attori devono giocoforza accettare le regole d’ingaggio, misurandosi con gli spazi ridotti a disposizione e puntando tutto sul flusso di emozioni cangianti che si riversa sul plot e sui personaggi che lo animano. A tenere altissima la tensione ci pensa poi il ritmo crescente del montaggio e l’ottima integrazione delle riprese di fiction con i materiali d’archivio.
Francesco Del Grosso