Una scalatrice di nome Wanda
Martedì 4 febbraio, alla presenza dei rappresentanti dell’Istituto Polacco di Roma, ha avuto luogo al Cinema Barberini una proiezione speciale del documentario di Eliza Kubarska, L’ultima spedizione, che grazie alla nuova e combattiva distribuzione italiana ribattezzata NFilm ha già cominciato a circolare nelle nostre sale. Emblematico il sottotitolo abbinato al film: Il mistero di Wanda Rutkiewicz, da cui si deduce che la storia della grande alpinista polacca è destinata, da un certo punto in poi, a tingersi di giallo. Singolare è pure il fatto che la scena documentaristica polacca, sposando la solida tradizione che l’alpinismo può vantare in tale paese, si è dedicata spesso e volentieri negli ultimi tempi a raccontare vicende simili, facendo rivivere sullo schermo le gesta dei più famosi scalatori. Ci viene subito in mente Jurek di Paweł Wysoczański, il documentario dedicato alla figura del grande Jerzy Kukuczka, considerato negli anni ’80 diretto rivale di Reinhold Messner, che proprio al cinema Barberini ebbe nel 2023 la sua anteprima italiana.
Qui poi è curioso annotare come la figura di Messner, protagonista e testimone di un’epoca contrassegnata da grandi imprese, nonché conoscente dell’atleta in questione, compaia anche ne L’ultima spedizione. Del resto quella dei grandi alpinisti potrebbe essere definita, per certi versi, una “famiglia allargata”. Pur con le ovvie rivalità e divisioni interne, pur con quelle amicizie destinate talvolta a incrinarsi o a concludersi tragicamente, vista l’acclarata pericolosità di tale disciplina.
Il film di Eliza Kubarska, frequentatrice anche lei dell’alta montagna, non è però soltanto un atipico biopic o una suggestiva ricognizione delle vette himalayane, bensì una sorta di mistery. Proprio perché è nel mistero che la fine della protagonista rimane avvolta. Giusto per dare le coordinate di base, cominciamo col dire che Wanda Rutkiewicz (nata in Polonia il 4 febbraio 1943) è stata la prima donna europea a scalare l’Everest, battendo anche i connazionali maschi (e quella femminista, infatti, è una delle possibili chiavi di lettura del film) in anni in cui le scalatrici non erano sempre ben viste. Fu inoltre la prima donna a scalare il K2, considerata la vetta più impegnativa al mondo, il che la spronò a concepire un’impresa più ampia, un sogno, ovvero scalare tutti gli Ottomila in tempi brevissimi. Il progetto però non fu mai completato. Nel 1992 tentò la conquista solitaria del Kanchenjunga, altro monte particolarmente insidioso, spedizione da cui non tornò più indietro. Il suo corpo non è stato mai ritrovato. Nel 1995 una spedizione italiana cui partecipava anche Simone Moro (episodio cui stranamente non si fa riferimento, in tale documentario) operò un possibile riconoscimento, ma le spoglie da loro rinvenute furono successivamente attribuite a un’altra alpinista dispersa. E questo ha contribuito ad alimentare la leggenda.
Ne L’ultima spedizione vengono infatti intervistati diversi personaggi, più o meno vicini alla Rutkiewicz, alcuni dei quali tendono a pensare che probabilmente sia morta sul Kanchenjunga, mentre altri sostengono che in preda a una crisi esistenziale (del resto da non molto aveva perso il compagno in un incidente ad alta quota) possa aver fatto perdere le proprie tracce, avventurandosi sul sentiero opposto a quello da cui era salita e andandosi a ritirare in un monastero tibetano.
E tra le testimonianze più suggestive, tocca dirlo, vi è è anche quella di un monaco buddista, il quale pensa che l’incidente sia stato fatale ma lei si sia già reincarnata in una giovanissima nepalese o tibetana. Ecco, se il documentario di Eliza Kubarska appare un po’ troppo rapsodico, ellittico, frammentario, sono due gli aspetti in cui torna a essere brillante. Uno di questi è l’analisi introspettiva della protagonista, del suo carattere condizionato anche da quelle tragedie famigliari che ne hanno costellato l’intera esistenza, senza contare poi l’ostilità o l’indifferenza talvolta riscontrate nel mondo tendenzialmente un po’ chiuso, egocentrico, maschilista, degli alpinisti polacchi. Mentre l’altro tratto riuscito del film è, per l’appunto, l’accurato sguardo etnoantropologico rivolto all’ambiente himalayano, di cui traspaiono opportunamente sia la durezza che l’impronta fortemente spirituale.
Stefano Coccia