Come riprendere la banalità del male
Distribuito nelle sale italiane a ridosso del Giorno della Memoria, destinato peraltro a rimanervi poco tempo, The Eichmann Show – Il processo del secolo merita senz’altro di essere intercettato dal pubblico più sensibile a certi argomenti, fosse anche per l’intelligenza e per l’accorta stratificazione della sceneggiatura, visto che in compenso l’impostazione registica può destare qualche perplessità.
Non è certo la prima volta che uno dei processi più famosi del Novecento, quello subito in Israele dal criminale nazista Adolf Eichmann, si rivela fonte di ispirazione per progetti cinematografici di un certo spessore. E la riflessione etica portata avanti da Hannah Arendt ne La banalità del male è in molti casi il perno, intorno al quale sono costruiti tali lavori: lo stesso magnifico biopic dedicatole nel 2012 da Margarethe von Trotta affronta ovviamente la questione, seppur assieme a diverse altre. Ma, volendo andare un po’ più indietro nel tempo, si può ricordare anche il documentario Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno, realizzato da Eyal Sivan verso la fine degli anni ’90 ed incentrato proprio sull’ampio materiale audiovisivo, accumulato durante le riprese del processo nel 1961.
Ecco, di quella eccezionale impresa televisiva e giornalistica The Eichmann Show – Il processo del secolo mostra in qualche modo la genesi. Il film di finzione diretto da Paul Andrew Williams (e scritto da Simon Block) esplora proprio le circostanze in cui il produttore televisivo Milton Fruchtman (Martin Freeman) riuscì a ottenere l’esclusiva per le riprese del processo, prendendosi poi il rischio di assumere come regista il progressista Leo Hurwitz, che negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale era finito nel dimenticatoio per colpa della famigerata ‘lista nera’ redatta dalla fosca figura del senatore McCarthy. Ad interpretare Leo Hurwitz, peraltro, un Anthony LaPaglia quasi commovente nel rendere le sfumature di un personaggio così delicato.
Uno dei meriti maggiori del film è alla fin fine proprio questo, il saper descrivere le dinamiche interne di una produzione televisiva nata in circostanze eccezionali, rapportando tutto ciò a contasti umani e professionali che appaiono sempre veri, convincenti, ben motivati.
In filigrana si scorgono poi tanti altri temi tutt’altro che irrilevanti: gli aspetti rimossi dell’Olocausto, riemersi prepotentemente attraverso le testimonianze dei sopravvissuti; le tensioni e le spinte autoritarie già affiorate all’interno della società israeliana; l’atteggiamento spesso noncurante e superficiale del pubblico medio americano; l’impatto sul sistema mediatico delle personalità più coraggiose e volitive, che saltuariamente fanno capolino nel panorama giornalistico degli States; ed ovviamente quei dialoghi tra i protagonisti che sembrano anticipare i toni del già citato e fondamentale scritto di Hannah Arendt, La banalità del male.
Ciò che manca semmai al film è un po’ di respiro, un utilizzo più calibrato di quel linguaggio cinematografico che, forse anche per competere con quello televisivo reso qui oggetto di analisi, tende ad assorbire con troppa facilità i difetti dell’altro: ne sono un esempio certe sequenze montate con eccessiva enfasi, quei campo e controcampo il cui rapido susseguirsi non consente sempre agli attori di manifestare le emozioni del caso, nonché la suspance un po’ artificiosa (pure nel commento musicale) degli spezzoni più ansiogeni, quelli relative alle minacce subite dalla troupe.
Vi è insomma una qualche faciloneria statistica che a volte stona con la profondità della scrittura. Eppure, The Eichmann Show – Il processo del secolo resta opera da recuperare, sia per la capacità di divulgare episodi storici meritevoli di approfondimento, sia per lo sguardo non scontato sui processi mediatici che li porgono alla nostra attenzione.
Stefano Coccia