Un grande attore “bifronte”
Rutger Hauer ci scuserà. Gli chiediamo perdono sin da ora se la sua scomparsa ci coglie abbastanza indifferenti. Per almeno un paio di ragioni. La prima è che le icone non possono morire. E lui, maledettamente iconico, lo è stato in diversi film interpretati. L’altra è ovvia: lo rivediamo sempre lassù, in cima a quel maestoso palazzo a pronunciare uno dei monologhi maggiormente ispirati dell’intera Storia del Cinema. Blade Runner, 1982. Ridley Scott traspone per il grande schermo Philip K. Dick. Roy Batty. La scelta fatidica tra essere un androide perfettamente amorale ed il concedersi ad un’umanità imperfettamente sentimentale. “E’ tempo di morire“. Dunque piangerlo ora risulta impossibile, poiché era già morto in quella meravigliosa opera che ne ha segnato, inconfutabilmente, la carriera.
Paradossi certo. Divagazioni. Leggende a cui noi cinefili piace credere. La realtà dietro la finzione racconta ben altro. Cioè di un attore eccezionale quando inserito in contesti artistici adeguati al proprio valore. Solo per restare a Blade Runner, quale interpretazione rimane più impressa nella mente vigile dello spettatore? Il grande Harrison Ford si “mangia” forse il film? Sean Young o Daryl Hannah lo fagocitano con il loro indubbio fascino muliebre? No. In un capolavoro indiscutibile spicca la performance di un attore non protagonista di nome Rutger Hauer. E non sarà l’unica volta nella quale il teutonico venuto dai Paesi Bassi supera persino l’eccezionalità di un magnifico lungometraggio a cui prende parte. Quattro anni dopo, nel 1986, è il turno di un’opera un po’ meno celebre di Blade Runner ma comunque di grande impatto. The Hitcher, unico exploit registico di Robert Harmon, all’epoca grande promessa (poi mancata) del cinema a stelle e strisce. Hauer è John Ryder. Come dire un John Doe qualunque, tirando in ballo Frank Capra. Che non c’entra nulla, perché Ryder è uno spietato killer seriale. Un Roy Batty che pare compiere l’altro tipo di scelta, quella di una totale amoralità. Non a caso incrocia la strada dello sventurato Carl Thomas Howell sotto una pioggia da tregenda. L’incubo di ogni americano medio, giovane e non, s’incarna in lui. Uccide per il gusto di uccidere, senza motivazioni specifiche. Sembra. Ma le apparenze ingannano. Perché lo spessore del film poggia interamente sulle robuste spalle di Hauer, che ne modella da par suo i contorni filosofici-esistenzialisti. Ryder uccide per sentirsi vivo. Per urlare agli altri il proprio diritto ad esistere in un deserto assieme figurativo e metaforico. E vuole essere fermato. Non è un altro Terminator dallo sguardo di ghiaccio. Di nuovo un culto assoluto.
Nel suo periodo migliore Hauer inanella presenze in film artistici come nel notevole Eureka (1983) di Nicholas Roeg, Osterman Weekend (1983) del grande Sam Peckinpah e riuscite fiabe d’intrattenimento come Ladyhawke (1985) di Richard Donner. Ci vuole l’intervento di un maestro come Ermanno Olmi a riportare ad una dimensione palesemente umana, di autentica sofferenza cristologica. Accade nel sottovalutato e ingiustamente criticato – nonostante, o forse proprio per, la conquista del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia – La leggenda del santo bevitore (1988). Ulteriore occasione per ammirare al lavoro un talento che definire poliedrico suonerebbe alquanto riduttivo.
Dai fenomenali, avanguardistici, film d’esordio girati in Olanda con il connazionale Paul Verhoeven – sorta di padre putativo artistico che gli sopravvive, anche se anagraficamente sarebbe più corretto definirlo un fratello maggiore – in regia, come Fiore di carne (1973), Kitty Tippel (1975), Soldato d’Orange (1977) e il memorabile Spetters (1980), Hauer approda con sempre frequenza alla terra (poco) promessa americana, con alterne e discutibili fortune. La parabola discendente è abbastanza celere e vertiginosa, al pari dell’ascesa. Poche apparizioni in opere degne di nota, tra questi l’esordio registico di George Clooney Confessioni di una mente pericolosa (2002) e Batman Begins (2005) di Christopher Nolan. Quasi un contrappasso, doloroso ma realistico: da icona ad attore di una certa età costretto a guadagnarsi la classica pagnotta. Come noialtri poveri mortali. Anche in produzioni italiane di basso livello qualitativo tipo Barbarossa (2009) di Renzo Martinelli e Dracula 3D (2012) di un Dario Argento ormai da tempo a corto di ispirazione. Parentesi come Il villaggio di cartone (2011), reunion con Ermanno Olmi, sono destinate a rimanere tali.
Tanti altri titoli, fino ad oggi, anche di assoluta inconsistenza. Ma noi lo ricordiamo sempre lassù. Una presenza immanente, dominante nel senso completo e letterale del termine. Persino quando non di lui non vi è traccia fisica, come nel prezioso sequel/reboot Blade Runner 2049 (2017) firmato da Denis Villeneuve. Il suo spirito aleggia come anello di congiunzione per una nuova razza umana, quella decisa a chiudere con il proprio passato e proiettarsi definitivamente nel futuro. Utopia. Non la vedremo mai. Solo al cinema. Con Rutger Hauer/Roy Batty solo soletto in cima a quell’enorme grattacielo, a bussare alle porte del Paradiso (Bob Dylan ci perdoni la citazione!) della Settima Arte dopo aver sfidato anche le simboliche fiamme dell’inferno della serie Z cinematografica.
Adesso, per tutti i cinefili, è tempo di passare dalla paradossale indifferenza di cui si faceva cenno nell’incipit al versare qualche lacrima. Senza la pioggia a conforto, ma anzi accompagnati dalla canicola sahariana. Così va il mondo, oltre Blade Runner.
Daniele De Angelis