Ho scelto te, un drago, per amico
«Quando spremi la nobiltà,
sono i contadini che soffrono»
(Draco a Bowen)
A (ri)guardarlo oggi Dragonheart (1996) di Rob Cohen è solamente un simpatico reperto fantasy prodotto negli anni Novanta, e forse non tutte le nuove generazioni lo conoscono; ma alla sua uscita fu uno dei maggiori film evento di quell’anno. Il clamore intorno al film non era solo per gli ottimi effetti speciali che animavano il drago, e che a tutt’oggi reggono molto bene, ma per la partecipazione nobilitante di Sean Connery come voce – originale – di Draco. L’attore scozzese, in una di quelle sue ultime partecipazioni fatte con classe e autoironia, fece anche da modello per le espressioni facciali del mitico mostro. Nella versione italiana, per cercare un attore con voce autorevole e dall’impostazione altrettanto canzonatoria, si scelse Gigi Proietti, che aveva fornito mirabolanti vocalizzi con il doppiaggio del genio della lampada nel cartoon Aladdin (1992) di Ron Clements e John Musker. A distanza di anni, mettendo per un attimo i giudizi critici da parte, quello che si ravvisa maggiormente è che la pellicola è uno di quei prodotti vincenti fortemente portato a termine dal produttore: dove aveva – mezzo – fallito Dino De Laurentiis con il magniloquente remake King Kong (1976) diretto da John Guillermin, la figlia ha invece fatto centro con il – piccolo – fantasy avventuroso Dragonheart (1996) di Rob Cohen. Raffaella De Laurentiis, con un medio budget, con riferimento agli standard di un kolossal, è riuscita a imbastire, al momento giusto, un film piacevole per il pubblico, prima di tutto a quello americano, tanto che ha avuto un seguito e ben 3 prequels, sebbene tutti realizzati direttamente per il mercato video.
Sceneggiato da Charles Edward Pogue, che aveva fornito un buono script a David Cronenberg per il remake La mosca (The Fly, 1986), Dragonheart è incentrato sulla classica amicizia che s’instaura tra un uomo e un animale, ma che in questo caso è un grande e saggio drago. È stato questo l’elemento funzionale – ma non inedito – della pellicola, poiché la storia non eccelle in ulteriori originalità, e sebbene non ci sia nessuna principessa da salvare, mette nuovamente in scena la storia di un cavaliere dall’animo nobile e un Re cattivo da sconfiggere. Dragonheart è molto debitore di quel fecondo cinema fantasy partorito negli anni Ottanta, senza dimenticare i romanzi avventurosi e le leggende medievali, in primis gli inevitabili richiami a Re Artù e la mitica Avalon (che appare nella sua gloriosa atmosfera in un fondamentale snodo della storia). Non c’è una diretta connessione con le atmosfere del maturo Excalibur (1981) di John Boorman e nemmeno con il classico Il drago del lago di fuoco (Dragonslayer, 1981) di Matthew Robbins, però c’è un forte collegamento con il fiabesco La storia infinita (The NeverEnding Story, 1984) di Wolfgang Petersen, ovvero l’amicizia tra il protagonista e l’enorme drago, molto simile al rapporto che c’era tra Atreyu e FortunaDrago; e un legame con il clima bonario de La storia fantastica (The Princess Bride, 1987) di Rob Reiner, ironia individuabile principalmente nel personaggio interpretato da Pete Postlethwaite (doppiato da Silvio Spaccesi, che prestò la voce anche a Billy Cristal nel film di Reiner). Peccato che alla pellicola manchi quel guizzo di magia e vera inventiva presente nelle due opere sopracitate, tra l’altro adattamenti di due romanzi. Una pecca riguarda la sceneggiatura, che a tratti sembra troppo disneyana (in questo caso nell’accezione dispregiativa), e l’altro difetto e la regia di Rob Cohen, più efficace in pellicole d’azione e d’ambientazione contemporanea. L’estro di Cohen si rilancia nelle due avvincenti scene di battaglia, molto buone visivamente anche perché realizzate in modo genuino, senza uso degli effetti speciali. In ogni modo Rob Cohen, con questo film, stringerà per qualche anno un rapporto produttivo – poco funzionale – con la De Laurentiis.
Roberto Baldassare