Il fanta-horror di Spielberg
«Mammina! C’è qualcuno qui!»
(Carol Anne – Heather O’Rourke)
Alcune tendenze (pseudo)cinefile sono quelle di ricordare una pellicola attraverso i dietro le quinte oppure cicalare animatamente sui retroscena funerei che lo avvolgono. Anche Poltergeist – Demoniache presenze (Poltergeist, 1982) si è ritrovato spesso in questo tipo di rievocazioni, essendo considerata una pellicola maledetta, perché alcuni attori sono morti in seguito a circostanze misteriose. In pratica, lo stesso alone macabro che avvolge L’esorcista (The Exorcist, 1973) di William Friedkin, altra famigerata pellicola del terrore. Se proprio si volesse intavolare una discussione fatta di pettegolezzi intorno a Poltergeist, molto più interessante è la vexata quaestio (che ormai non esiste più) su chi ha diretto realmente la pellicola. Questa faccenda, che si è riverberata negli anni con connotazioni più da gossip che di vera analisi filmica, è molto più utile per comprendere le qualità o i difetti della pellicola. Nei fatti, Poltergeist è ritenuto un cult, un tassello fondamentale per comprendere l’horror prodotto negli anni Ottanta. Il suo enorme riscontro di pubblico ha fatto scaturire ben due seguiti di mediocre fattura, e cioè Poltergeist II – L’altra dimensione (Poltergeist II – The Other Side, 1986) e Poltergeist III – Ci risiamo (Poltergeist III, 1988). Nel 2015 la mecca hollywoodiana, ormai carente d’idee, ha prodotto il loffio remake Poltergeist diretto da Gil Kenan, dando indirettamente maggior risalto all’originale.
Poltergeist – Demoniache presenze, come riportano i credits, è diretto da Tobe Hooper e prodotto da Steven Spielberg e Frank Marshall. Hooper era stato uno dei registi “enfant prodige”, assieme a Wes Craven, degli horror degli anni Settanta, perché i low budget The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta, 1974) e Eaten Alive (Quel motel vicino alla palude, 1977), che traevano spunto da vicende di serial killers veramente esistiti, raccontavano il vero orrore che si poteva celare nel quotidiano. In pratica quello che mostrerà, con perfetta sintesi grottesca, David Lynch con Blue Velvet (Velluto blu, 1986), in cui sotto la radiante cittadina di Lumberton si nasconde uno schifoso verminaio. Se con The Funhouse (Il tunnel dell’orrore, 1981) Tobe Hooper passò dal low budget al cinema mainstream, però mantenendo quell’alone di orrore slasher, è con Poltergeist che s’inserisce pienamente nel circuito normale, normalizzando il suo piglio orripilante. Se le pellicole precedenti erano horror tout-court (a cui si aggiunge il “tv-movie” Salem’s Lot), con quest’opera l’horror viene contaminato abbondantemente con il genere fantasy (fantasmi, medium, chili di sostanza ectoplasmatica). Questa sovrapposizione di due generi, che si verificherà sovente in molte pellicole degli anni Ottanta – per esempio basti pensare ai blockbusters Indiana Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984) di Steven Spielberg (avventura + terrore), o Ghostbusters – Gli acchiappafantasmi (Ghostbusters, 1984) di Ivan Reitman (horror + commedia), non ha giovato pienamente a Hooper. Come scritto in precedenza, è vero che la pellicola è stata un successo, ma ha snaturato (e in parte inibito) lo stile del regista texano. Le successive opere: Space Vampires (1985), Invaders (1986) e The Texas Chainsaw Massacre 2 (Non aprite quella porta – Parte 2, 1986) seguono questo modus operandi, cioè di “piegare” l’horror con un altro genere, però mostrano un eccessivo attenuamento del componente gore, per entrare più facilmente nel circuito mainstream.
Poltergeist, tratto da un soggetto di Steven Spielberg (che poi lo ha sceneggiato assieme a Michael Grais e Mark Victor), infatti non è stato diretto pienamente da Tobe Hooper, ma da Steven Spielberg. Secondo le testimonianze degli attori e dei tecnici, Spielberg, oltre ad essere autore degli story-boards e il co-produttore, è stato sempre presente sul set, mancando solo per tre giorni. Tobe Hooper, quindi, è stato solo un mero esecutore del prestabilito. Guardando la pellicola da questo punto di vista, pertanto, si comprende maggiormente il tono dell’opera. Non a caso è uscito lo stesso anno di E.T. The Extra-Terrestrial (E.T. L’extra-terrestre, 1982), altra storia fantasy ma con umori buonisti e pacifisti, di cui Poltergeist potrebbe essere un approccio al negativo (il contatto con un’entità “aliena” belligerante). Lo straordinario, questa volta malefico, entra nella vita di persone comuni (come accadde in Duel, Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo e il già citato E.T.). Uno degli aspetti stimolanti è come il male(fico) si palesi inizialmente attraverso la televisione, medium che sarà al centro anche del coevo Hallowen III – Season of the Witch (Halloween III – Il signore della morte, 1983) di Tommy Lee Wallace e del successivo Videodrome (1983) di David Cronenberg. In questo caso la televisione non propone messaggi subliminali, ma è un ponte con l’aldilà, di conseguenza recupera l’etimologia della parola (tele = lontano, visione = vedo). Un’altra lettura interessante, però, sarebbe quella di percepire quest’opera come una rivalsa del proletariato (i poveri morti ingiustamente “sloggiati”) contro i ricchi (l’impresa edilizia che si è arricchita sulla loro pelle, anzi sulle loro ossa). Quello che si rileva, inoltre, è che la storia di Poltergeist, ideata dal cinefilo Spielberg, sembra una contaminazione tra L’esorcista (la medium al posto del prete, il letto che si muove in modo vorticoso) e di The Shining (la casa costruita sopra un cimitero, le apparizioni, la bambina con una “luccicanza”). E a proposito di cinefilia, è affascinante notare come in una delle televisioni appaia un lacerto di A Guy Named Joe (Joe il pilota, 1943) di Victor Fleming e con Spencer Tracy. Tale pellicola avrà un remake nel 1989 per opera di Steven Spielberg, dal titolo Always (Always – Per sempre).
Roberto Baldassarre
It was very much fully directed by Tobe Hooper. Not a single actor removes Hooper from the equation of performance-directing and determining mise-en-scene. They will in fact say Hooper was their only director. Technicians are more willing to sow the seeds of rumor and gossip, but there is no way they can know the full story.
Spielberg did not fully author the storyboards. Rather, he either worked collaboratively with Hooper, or Hooper has stated that he himself authored “fully half the storyboards.” That is not to mention how drastically the storyboards are often diverged from or constantly reworked through, presumably, Hooper’s input. This is clear from how the storyboards often mirrored Spielberg’s script, but what appears on screen is quite removed from both script and storyboards. The film would, simply put, not be the same film if Hooper was not there to take the reins, NOT simply work from “pre-established” work, which is impossible in the first place. A film cannot be “directed” through storyboards, and there has never been a case in film history where this is a valid working method. Hooper made the film his own and was influenced by years of studying ghosts and the cinema of ghosts (he was planning on making a ghost film for years before even meeting Spielberg). He developed the film with Spielberg from the very beginning. Hooper’s desire to enter a collaborative process with Spielberg was his decision and, hiccups and creative clashes aside, he came out with his own personal work in the end.