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Poltergeist

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VOTO: 5.5

Spiriti con le rughe

Come nella politica o nel tifo calcistico, anche nell’approcciarsi ai remake cinematografici esistono le fazioni. Nella fattispecie almeno due. La prima prevede la sacralità intoccabile dell’opera, a maggior ragione quando essa è considerata, per svariate ragioni, un cult assoluto inevitabilmente figlio del proprio tempo. La seconda al contrario benedice l’operazione in quanto più o meno necessario aggiornamento per le nuove generazioni, impigrite dai tempi e magari “vergini” di sguardo nei confronti dell’originale. Al di là delle varie correnti di pensiero esistono poi, ovviamente, dei fattori economici che spingono alla messa in cantiere dei rifacimenti, sui quali nessuno dovrebbe controbattere. Per la serie: ognuno spende i suoi soldi come vuole.
Dopo questa premessa entriamo nel vivo del discorso, propendendo per il parere che il Poltergeist versione 2015 faccia pendere di gran lunga la bilancia verso il partito dei contrari, pur lasciando qualche isolata argomentazione a favore dei difensori d’ufficio. L’errore più marchiano al quale sono andati incontro, a petto nudo e con totale sprezzo del pericolo, il regista Gil Kenan e lo sceneggiatore David Lindsay-Abair è stato quello di fingere che il tempo non sia passato, rispetto al fenomenale – e il termine va inquadrato in tutti i possibili significati – originale del 1982 partorito dalla strana ma riuscitissima coppia che prevedeva Steven Spielberg alla produzione e Tobe Hooper alla regia, con la presenza del primo a farsi sentire ben più dello stile del regista di Non aprite quella porta (1974). In questo frattempo il filone cinematografico delle “case possedute” è stato spremuto sino all’inverosimile, in quasi tutte le declinazioni. Dalla tecnologia rivelatrice dei vari Paranormal Activity, alla falsa pista della saga di Insidious, dove la magione è stata usata fisicamente soprattutto allo scopo (riuscito) di creare brividi. Il risultato più ovvio di tale valutazione sbagliata è l’incapacità totale del nuovo Poltergeist di incutere il benché minimo timore. Pressoché azzerate le innumerevoli istanze socio-politiche presenti nel film primigenio, per le quali non basterebbe un singolo articolo ad elencarle (il discorso sull’America più beceramente capitalista edificata sulla pelle dei nativi nella metafora del cimitero indiano, la televisione vista come passaggio verso un’altra, terrificante, dimensione. Solo per fare un paio di esempi…), il film di Kenan si adagia pigramente sull’impianto narrativo dell’originale, risultando alla fine un banale raccontino screziato di horror incentrato sull’indissolubilità della famiglia tradizionale, minacciata sia dagli spiriti che dalla ben più insidiosa crisi economica ma capace di uscirne grazie all’unità di intenti. In questa chiave nessuna sorpresa: semmai era stata la ricchezza di sottotesti progressisti del Poltergeist originale a creare stupore, assodato il tradizionale conservatorismo delle grandi produzioni. Nel caso del remake – prodotto, oltre che da 20th Century Fox e Metro-Goldwyn Mayer, anche dalla famigerata Ghost House Pictures di Sam Raimi, che percentualmente ne azzecca davvero poche – le idee visive di una qualche originalità si contano sulle dita di una mano, e solo quando il regista riesce a compiere lo sforzo di staccarsi dal modello; come nella sequenza dal sapor espressionista in cui l’ombra della bambina già risucchiata dai poltergeist viene inseguita per la casa da papà Sam Rockwell. Per il resto uno sterile pot-pourri di un cinema predigerito assolutamente figlio dei tempi che viviamo, che poco si discosta, in positivo, da altri rifacimenti inerti tipo Nightmare o Venerdì 13.
Probabilmente Poltergeist avrebbe avuto qualcosa di nuovo da raccontare se si fosse esclusivamente concentrato sul tema del racconto di formazione, sempre dalle alte potenzialità empatiche e già esplorato dal londinese Gil Kenan – peraltro con discreti risultati – nel cartoon d’esordio Monster House (2006). In questo senso infatti l’unico personaggio ad avere un risalto superiore rispetto al primo film è quello del figlioletto maschio Griffin (tutti i nomi dei componenti della famiglia protagonista sono stati cambiati), del quale si esplorano con una certa efficacia le paure ancora infantili ed infine si attesta il suo passaggio all’età successiva per il coraggio dimostrato nei confronti della sorellina in pericolo. Purtroppo però Kenan non è Tim Burton nella visione organica dell’opera e tutto il comparto cosiddetto adulto di Poltergeist affoga nella prevedibilità, rendendo il film solo un’innocua uscita estiva al pari di molti altri fondi di magazzino rilasciati in libertà nel periodo.

Daniele De Angelis

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