Lode al Signore!
In arrivo nelle sale italiane, dopo oltre un anno dal successo statunitense, il biopic sulla celebre cantante afro-americana Aretha Franklin. Non meno di qualche settimana fa, abbiamo partecipato alla proiezione speciale del documentario Amazing Grace al quale, nel finale di questo lungometraggio dal titolo Respect, ci si ricollega tramite un ponte naturale. Ma prima di arrivare al disco più venduto della musica che le ha consentito di divenire una vera e propria diva leggendaria, la pellicola ripropone gran parte dell’esistenza della Franklin. Chi ha avuto la fortuna di sentirla dal vivo e di amare lei e le sue canzoni saprà che non è stata tutto rose e fiori. Al contrario, la regista Liesl Tommy e la sceneggiatrice Tracey Scott Wilson sfruttano la possibilità di questo film per raccontare come ella sia riuscita a divenire immortale nonostante il mondo sembrasse cascarle addosso ogni qualvolta. Dalla violenza sessuale subita da bambina, al difficile rapporto col padre, fino alla relazione malata col produttore Ted White (interpretato da Marlon Wayans) ed i problemi frequenti con alcool e droghe leggere. Il tutto ovviamente circondato dalla tematica razziale che attanagliava gli Stati Uniti durante quel periodo storico. All’interno del film infatti, viene particolarmente approfondito il rapporto tra la cantante e il leader per i diritti dei neri Martin Luther King, il quale veniva chiamato affettuosamente zio da quest’ultima. Ma nelle oltre due ore di proiezione pesa l’assenza di una vera e proprio filologia narrativa. Risulta abbastanza complicato capire quale sia lo scopo del film. Di sicuro è una pellicola atta a ricordare una delle figure chiave dell’America a cavallo degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Ma non è un prodotto che voglia dare uno spunto a coloro che verranno dicendo: “Ehi, attenti a chi vi fidate”. Sembra infatti un atto di giustificazione nei confronti della cantante, come se i suoi demoni interiori fossero tutti giustificati dagli eventi in cui è rimasta coinvolta; e nonostante questo è riuscita comunque ad ottenere un insperabile successo. Anche la decisione di lasciare il genere “soul”, ideato da lei stessa, per riabbracciare il tanto amato gospel sembra un evento che alla fine il pubblico, di forza, si aspetta.
Il punto focale di questo lungometraggio risiede sicuramente nella simbolica interpretazione di Jennifer Hudson. La scelta della protagonista è stata dettata ovviamente dall’esigenza di avere un’attrice che sapesse anche cantare. La Hudson ha inciso tre album e diverse colonne sonore, tra cui quella recente dell’insuccesso Cats. La sua reinterpretazione delle melodie intonate a squarciagola dalla Franklin a suo tempo è il fattore chiave per la parziale riuscita di un prodotto che, altrimenti, sarebbe alquanto modesto. Ma se la Hudson regge da sola tutto il film, basta solo una scena a Mary J. Blige, nel ruolo di Dinah Washington, per rubare la platea alla protagonista principale. Non male anche il veterano Forest Whitaker, interprete del Mister C.L. Franklin. L’ex interprete di Rogue One e Prospettive di un delitto riesce a dare una forte caratura al personaggio nonostante egli venga visto in chiave prettamente negativa. Allo stesso tempo però, Whitaker non cancella quel pizzico di umanità e di amore che un padre deve sempre alla propria figlia. Potremmo definire quindi Respect come un biopic alquanto confuso, con una sceneggiatura troppo arzigogolata, sorretto però dalle ottime interpretazioni dei principali attori protagonisti. È un film che trova il proprio ritmo e la propria forza nel canto della Franklin. Per il resto, non si dissocia tanto da un biopic non troppo riuscito e incapace di rimanere nella memoria spettatoriale.
Stefano Berardo