Prove tecniche di Morte Nera
Dopo il tanto discusso rilancio operato da J. J. Abrams con Star Wars: Il Risveglio della Forza, l’espandersi della saga di Guerre Stellari nell’era Disney conosce ora nuovi sviluppi. E sono sviluppi che, neanche a dirlo, guardano ancora una volta in direzione del passato. Ovvero in direzione delle due trilogie partorite direttamente da Lucas e dei possibili interstizi tra storie già raccontate, in cui cogliere nuovi spunti da approfondire, cesellare, ampliare. Questa più o meno è la logica con cui è stata immaginata la serie Star Wars Anthology, una collezione di film a se stanti di cui Rogue One: A Star Wars Story costituisce, per l’appunto, lo scoppiettante debutto. Scoppiettante, a nostro avviso, anche perché è un regista con le qualità di Gareth Edwards ad aver preso in mano il timone. Al cineasta britannico viene peraltro attribuita la seguente frase, che oggi come oggi suona emblematica: «Star Wars è sicuramente la ragione per cui ho voluto diventare un regista». Ad accomunare lui e J. J. Abrams vi è quindi, di base, una innata passione per certe diramazioni dell’immaginario fantastico. Detto questo, l’approccio dei due registi a livello di toni e di stile narrativo tende però a diversificarsi, anche sensibilmente. E a breve vedremo perché.
In Rogue One si narrano fatti da contestualizzare prima di Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza e legati alle operazioni dell’Alleanza Ribelle contro l’Impero. Fatti, cioè, avvenuti prima che la Morte Nera, qui ancora in fase sperimentale, potesse esprimere tutto il suo potenziale bellico.
Il racconto inizia col rapimento, da parte dello spietato Direttore Imperiale Krennic, di un recalcitrante scienziato che dovrebbe contribuire allo sviluppo e al perfezionamento dell’arma, ovvero quel Galen Erso (impersonato da un come sempre magnetico Mads Mikkelsen) che nel corso della brutale operazione perde sua moglie riuscendo invece a nascondere, seppur con fatica, la loro figlioletta. Costei, di nome Jinn, crescerà (e da giovane guerriera sarà la lanciatissima Felicity Jones, ad interpretarla) sotto la guida dell’uomo che l’aveva portata in salvo da piccola, il ribelle Saw Gerrera (Forest Whitaker), appartenente però a una fazione estremista di chi si oppone all’Impero. Perso di vista in età adulta il proprio mentore, dopo una fase di assoluto disinteresse per la sorte della Galassia che la farà somigliare abbastanza, caratterialmente, ad un Han Solo in gonnella, la coriacea Jinn verrà in compenso individuata da altri agenti dell’Alleanza Ribelle, che la convinceranno ad imbarcarsi in una pericolosa missione: dal suo esito potrebbe infatti dipendere la neutralizzazione o meno di un’arma temutissima come la Morte Nera.
Con al centro un McGuffin da space opera ottimamente concepito quale si rivelerà, strada facendo, la ricerca da parte dei Ribelli di quei dettagli tecnici approntati in gran segreto da Galen Erso, per rendere vulnerabile la Morte Nera, si può dire che la Forza scorra possente in Rogue One e la narrazione pure. Ma sono soprattutto i toni ad esser stati azzeccati da Gareth Edwards, abile come in altre occasioni a delineare universi fantastici dalle atmosfere per niente scontate. Ricordiamoci in primis che si sta parlando del regista di Monsters (2010), suo brillantissimo e originale lungometraggio d’esordio. E che sempre a lui si deve, successivamente, una meravigliosa riesumazione del mito di Godzilla (2014) capace di seppellire persino il ricordo dell’analoga e oscena operazione compiuta, anni prima, da Roland Emmerich.
Delle precedenti regie Gareth Edwards riprende senz’altro quella capacità di far scivolare i contorni immaginifici delle storie con grande naturalezza, sui corpi e sulle azioni stesse dei personaggi. Il corredo di effetti speciali è in ogni caso ragguardevole, gestito anche bene, come si nota nelle grandi battaglie spaziali e in altre sequenze dai contorni catastrofici. Ma per il resto il cineasta sembra più interessato a lavorare per sottrazione, operando sulle reazioni emotive dei personaggi e su una più sottile ibridazione di generi differenti. Ciò si nota sin dalle primissime scene, quando il blitz degli Imperiali nella landa desolata dove Galen Erso si è ritirato a vivere con la propria famiglia può adombrare, nella composizione delle inquadrature come anche nel progressivo definirsi della situazione, una sorta di parafrasi western. Mentre la concezione in qualche modo orientaleggiante della Forza trova, più avanti, adeguata rappresentazione nel personaggio interpretato da Donnie Yen con riflessioni, movenze e stile di combattimento da wuxiapian proiettato nello Spazio. E piace anche, man mano che ci si avvicina all’epilogo, il tono sempre più crepuscolare di cui si ammanta la disperata ed eroica impresa tentata dai protagonisti.
Ai fan della saga piacerà forse meno, volendo essere del tutto onesti, l’appiattirsi su determinati livelli di alcune parti dello spettacolare confronto tra forze Imperiali e Ribelli, rispetto a una messa in scena probabilmente più curata e creativa, come quella proposta da J. J. Abrams nel precedente lungometraggio. E anche gli eventuali sottotesti, relativi al contrasto di natura politica tra l’estremista Saw Gerrera e il resto della Ribellione, potevano essere espressi un po’ meglio. Ma sono comunque piccole sfumature di un discorso filmico che in linea di massima regge benissimo. E le modalità talmente maestose con cui il leggendario Darth Vader si riapproprierà del centro della scena, più o meno verso la fine, riallacciando in modo imperioso (e imperiale) i contenuti di questo racconto con quanto ci è già noto grazie a Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, rappresentano la classica ciliegina sulla torta. Questa impennata finale marchiata dal rosso bagliore di una spada laser, oltre a risultare filologicamente corretta, riesce così a riportare la saga nella dimensione mitopoietica che le appartiene.
Stefano Coccia