Dalla Russia con ardore
Di spy-story non particolarmente riuscite ce ne sono un numero piuttosto cospicuo in un secolo e passa di storia della Settima Arte. Si tratta di una flessione assolutamente fisiologica, estendibile su scala mondiale alle cinematografie delle diverse latitudini, per via delle innumerevoli pellicole prodotte e ascrivibili nel suddetto genere. Sono gli effetti collaterali di una produzione così vasta, che il più delle volte non è in grado di garantire al pubblico opere capaci di rendere onore al glorioso filone. Le cause possono essere svariate e di diversa natura, ma la più diffusa, quella che nei decenni ha mietuto più vittime, è sicuramente la mancanza di tensione e di suspence. L’ingiustificata assenza nella scrittura prima e nella sua messa in quadro poi hanno e continuano a determinare brusche cadute e clamorose defaiance. L’ultima in ordine cronologico a scivolare ben al di sotto della soglia della sufficienza, proprio a causa delle suddette mancanze, è Red Sparrow, la trasposizione per il grande schermo del romanzo “Nome in codice: Diva” dell’ex agente della CIA Jason Matthews, che approda nelle sale nostrane l’1 marzo sulla scia di critiche non particolarmente incoraggianti.
La pellicola racconta le vicissitudini di Dominika Egorova, ex danzatrice del Bolshoi che in seguito a un incidente sul palco viene arruolata contro la sua volontà nella Scuola Sparrow, un servizio segreto che trasforma giovani donne in letali e seducenti assassine; dopo aver affrontato un duro allenamento, Dominika diventa la più pericolosa “Sparrow” di sempre. Il suo primo obiettivo è Nathaniel Nash, un ufficiale della CIA che monitora le infiltrazioni dell’Intelligence Russa. I due cadono in una spirale di attrazione e inganno che minaccia le loro carriere, la loro fedeltà e la sicurezza di entrambe le nazioni.
A firmarne la regia ci pensa Francis Lawrence, che dal punto di vista del confezionamento non ha particolari problemi a portare a casa il risultato, così come era stato in passato per Constantine, Io sono leggenda o per i capitoli di Hunger Games a lui affidati. La fotografia e il montaggio, nello specifico, contribuiscono e non poco alla causa, dando una grossa mano al cineasta statunitense. Le pochissime sequenze d’azione e le folate di violenza (vedi l’addestramento e le torture subite e inflitte) presenti sulla timeline non brillano certo per spettacolarità ed efficacia, ma almeno assolvono al compito affidato dando qualche scossa a un tracciato narrativo e drammaturgico altrimenti piatto e confuso. La linea mistery si palesa, infatti, come una debole e ingarbugliata successione di scatole cinesi, dove lo scrittore prima, lo sceneggiatore poi e il regista infine, provano a spiazzare e a depistare lo spettatore di turno con il più classico gioco del gatto con il topo. Ma la ragnatela tessuta in fase di scrittura, nel quale il cambio delle carte in tavola rappresenta l’unico meccanismo messo in atto dagli autori per provare a tenere vivo l’interesse della platea, resta intrecciata e non raggiunge l’esito sperato, ossia quello di tenere sulla graticola il fruitore.
Lawrence sceglie di portare avanti il tutto con un ritmo sincopato, eccessivamente dilatato sino al pedante, invece di optare per tempi più rapiti e adrenalinici, che avrebbero garantito al film qualcosa in grado di rendere più avvincente e coinvolgente la successione degli eventi. In tal senso, rimanendo circoscritti al genere in questione, l’autore e il suo staff vanno nella direzione de La talpa di Alfredson, piuttosto che in quella ultra-cinetica impressa da Leitch al suo Atomica bionda. Una scelta, questa, che a conti fatti taglia definitivamente le gambe alla pellicola e alle sue aspirazioni.
A questo punto, l’ultima speranza per farsi andare giù la pillola resta la presenza nel cast di attori del calibro di Joel Edgerton, Charlotte Rampling e Jeremy Irons, risucchiati però nel vortice della debolezza del disegno dei personaggi a loro affidati. Un vortice che finisce con l’inghiottire anche la bravissima e bellissima Jennifer Lawrence, qui impegnata nel ruolo di una sorta di sensuale e irresistibile Mata Hari sovietica. Dal canto suo, l’attrice americana, al di là del calamitare su di sé e sul suo corpo statuario l’occhio dello spettatore, sembra un pesce fuor d’acqua, che non riesce a tenere il passo di colleghe che prima di lei si sono cimentate con il cinema spionistico: dalla Jolie di Salt alla Geena Davis di Spy e alla Theron di Atomica bionda, dalla Parillaud di Nikita alla Carano di Knockout e alla Mirren di Red, riavvolgendo il nastro sino alla Bergman di Notorius. Il risultato è che porta a casa un’altra pessima performance dopo Passengers, arrivando a fare peggio persino della Rapace di Codice Unlocked.
Francesco Del Grosso