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Peacock

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VOTO: 7

Un uomo per tutte le occasioni

L’Austria si sa poter disporre e contare su una cinematografia effervescente e variegata, nella quale agli illustri maestri come Seidl o Haneke si vanno affiancare promettenti e interessanti nuove leve. Una di queste è il classe 1992, Bernhard Wenger, che dopo essersi messo in evidenza come cortista si è recentemente affacciato sui grandi palcoscenici internazionali con la sua opera prima dal titolo Peacock, presentata in concorso alla 38esima edizione del Bolzano Film Festival Bozen dopo un fortuna tour festivaliero iniziato alla SIC di Venezia 81.
Il pavone a cui fa riferimento il titolo, che a un certo punto si paleserà sullo schermo in tutta la sua maestosa bellezza aprendo la ruota per sedurre i suoi astanti e convincerli di essere davvero quello che loro pensano sia, in realtà nella mente dell’autore andrebbe trasfigurato per essere letto su un piano metaforico così da diventare il riflesso del profilo caratteriale del protagonista della pellicola e del suo modus operandi. Camaleontico, straordinario nell’impersonare chiunque, Matthias lavora infatti in un’azienda chiamata “My Companion – Friend for Hire” (Il mio compagno – Amico a noleggio, n.d.t.), assumendo il ruolo del partner perfetto per ogni occasione, in ogni situazione, che si tratti di fingere di essere il figlio di un’anziana signora amareggiata, di essere l’accompagnatore appassionato di musica di un’anziana signora o persino di aiutare una donna a imparare a litigare con il marito. Sembra di assistere nuovamente per certi versi a Family Romance, LLC., nel quale Herzog per l’occasione in trasferta in Giappone raccontava la vita quotidiana e le esperienze lavorative di tal Yuichi Ishii, la cui attività imprenditoriale ruotava attorno all’idea di fornire “familiari in affitto” per ogni evenienza, pubblica o privata. Un servizio, questo, che nel Sol Levante esiste davvero e che da due decenni a questa parte viene offerto da agenzie “rent a friend”. Ed è proprio dall’incontro che gli è capitato di fare con un impiegato in un’agenzia di amici a noleggio che il regista salisburghese ha tratto lo spunto per la storia narrata in Peacock e il modello che ha ispirato il disegno di un uomo capace di impersonare chiunque tranne che se stesso, un po’ come i personaggi di Alps di Lanthimos, degli attori impersonavano i cari estinti di clienti disposti a pagare pur di avere ancora l’illusione di avere accanto le persone amate. Il Matthias di Peacock, qui interpretato con il giusto livello di passività e con discreta abilità trasformista da Albrecht Schuch, pur eccellendo ogni giorno nell’arte di fingersi qualcun altro, avrà come sfida proprio quella di provare ad essere se stesso. Facile a dirsi, ma complicato a farsi per un uomo che per tutta l’esistenza ha indossato la maschera di qualcun altro invece di vivere la propria vita. Ed è quello che tenterà di fare nell’arco narrativo a sua disposizione, in cui dovrà fare i conti con la sua vanità e rifiutare la nozione di perfezionismo impeccabile che lo circonda.
Se riuscirà nell’intento lo lasciamo alla visione di questo film che si prende dichiaratamente gioco dell’eccessivo bisogno della società odierna di personalità perfettamente curate, anche se finte. Lo stesso bersaglio puntato da Sonja Prosenc nel suo Family Therapy, prima di lei da colleghi come Seidl e Trier, ma soprattutto dallo svedese Ostlund, cantore dell’ipocrisia della borghesia intellettuale contemporanea. L’arma utilizzata da Wenger, provata già in precedenza nel pluridecorato cortometraggio Excuse Me, I’m Looking for the Ping-pong Room and My Girlfriend, per colpire quel bersaglio e pressoché la stessa, quella della commedia corrosiva vira verso le timbriche del grottesco. Caricata con cartucce di umorismo pungente, secco e tagliente, l’arma in dotazione al cineasta austriaco differisce però per il modo in cui viene utilizzato lo humour. Questo infatti non viene veicolato come spesso accade in operazione analoghe esclusivamente attraverso i dialoghi, bensì mediante un lavoro con la messa in scena, la scenografia, i costumi e il montaggio, in modo che l’umorismo si crei anche visivamente, senza tuttavia ricorrere allo slapstick ma affidandosi alle situazioni e all’interazione tra il protagonista e l’assurdità del mondo che lo circonda. Un modus operandi che rende l’operato di Wenger formalmente già chiaro e definito (predilezione di inquadrature fisse e geometriche) e più personale nelle intenzioni, ma non abbastanza ancora per emanciparsi da quel cinema mitteleuropeo e nordico degli ultimi decenni dal quale attinge forse con troppa insistenza. Ed è questo che ci auguriamo, ossia che il regista austriaco possa trovare una strada personale. Solo così un autore così promettente e di indubbie qualità come lui potrà mostrare il suo valore. Non ci resta che aspettare, perché solo le prove successive potranno dircelo. Per ora Peacock ci è sembrata una buona e incoraggiante partenza.

Francesco Del Grosso

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