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Family Therapy

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VOTO: 6

Una famiglia (im)perfetta

Nonostante sia di produzione slovena, tanto da essere stata scelta per rappresentarla agli Oscar 2025, così come colei che l’ha scritta e diretta è nativa di Slovenj Gradec, cittadina situata a nord del Paese nella regione della Carinzia, Family Therapy (Odrešitev za začetnike) in un certo senso al Trieste Film Festival, laddove è stata selezionata nel concorso lungometraggi della 36esima edizione, è come se avesse giocato in casa. La proiezione della pellicola di Sonja Prosenc, che oltre ad essere stata girata quasi interamente in Friuli Venezia Giulia, dove ha potuto contare sul sostegno e su finanziamenti di enti locali, ha segnato anche il ritorno alla kermesse giuliana della regista e sceneggiatrice a dieci anni esatti dalla prima volta con il suo film di debutto dal titolo Drevo. In attesa dell’uscita nelle sale il 28 gennaio con Emerafilm, il festival triestino non poteva quindi essere palcoscenico migliore per l’anteprima italiana del film, dopo che questo aveva ben figurato oltreoceano all’ultima edizione del Tribeca.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa della Prosenc ruota attorno a una famiglia slovena “nouveau riche” che vive in una casa di vetro, ostentando fredda superiorità. Un giovane estraneo arriva in casa della famiglia, sconvolgendo il delicato equilibrio delle dinamiche familiari e rivelando un mondo caotico e le loro relazioni disfunzionali, apparentemente ben nascoste: l’iperprotettività soffocante della madre Olivia nei confronti della figlia Agata, l’evasione del padre Aleksander alimentata dai sogni di compiere viaggi nello spazio con la famiglia e il segreto nascosto sotto la parrucca di Agata.
Letta così la sinossi di Family Therapy chiama direttamente in causa la premessa di Teorema di Pasolini, con l’ambientazione e le dinamiche interne al nucleo domestico di turno che fungono da sfondo satirico per una sua rivisitazione in chiave umoristica. Vediamo infatti già delicati equilibri della topografia andare in frantumi quando in essa fa il suo ingresso un “corpo estraneo”, mettendone a nudo tutti quelli che sono i punti deboli, i timori e i difetti. Questi rappresentano la materia prima sulla quale lavora la scrittura e poi la trasposizione di un’opera che si muove sopra e sotto le righe mescolando e alternando toni e registri, compreso quello visionario (vedi le scene dei cervi), per dare forma e sostanza a una black-dramedy. Tale molteplicità servono all’autrice per fare una radiografia che punta a indagare quelle che sono le ragioni che stanno dietro alle scelte deiprotagonisti: quattro individui di differenti età e personalità di cui tre, a diverso titolo, si stanno più o meno consapevolmente isolando dal mondo esterno. Lo fanno per preservare il loro fragile equilibrio o, invece, la loro apparente indifferenza verso il mondo circostante è un sintomo appreso che riguarda problemi sociali più ampi? Lasciamo ovviamente alla visione la o le risposte, ma è chiaro che la centralità dei personaggi, le loro relazioni e reazioni rispetto alle sollecitazioni interne ed esterne alle quattro mura siano l’oggetto di osservazione della lente d’ingrandimento della cinepresa. Non è un caso che l’abitazione dove vive la famiglia in questione sia una villa geolocalizzata in una zona non meglio identificata, circondata da una foresta e delimitata da mura di vetro che ne mostrano l’interno e che possono essere infrante in qualsiasi momento. Metafore, queste, che solo una volte colte e metabolizzate possono consentire allo spettatore di entrare in contatto con le diverse stratificazioni e chiavi di lettura dell’opera. Il contrario, che poi è il rischio più grande incontro al quale vanno incontro pellicole come quella della regista slovena, è di essere rispedita al mittente per la l’incapacità o la mancanza di volontà del destinatario di andare oltre la superficie. Ma questo spetta all’approccio del singolo fruitore.
Piaccia o no, Family Therapy è un film che si assume dei rischi e lo fa senza timori reverenziali, portando sullo schermo un tipo di cinema più autoriale e celebrale, eccentrico e non lineare, che strizza l’occhio alla Weird Wave della vicina cinematografia greca della quale l’operato e lo stile della Prosenc sembrano dichiaratamente manifestare l’influenza. Sfuggendo alle etichette, all’immediata lettura e al realismo, necessita dunque di uno sforzo da parte di chi lo guarda e di conseguenza di un approccio consapevole. Ciò lo rende attaccabile su più fronti nel momento in cui non si prendono in consegna e si seguono le suddette regole d’ingaggio. La mancata accettazione non permette la codifica delle tematiche universali affrontate (la famiglia e i suoi complessi ingranaggi, i legali affettivi, la diffidenza nei confronti dell’altro, l’isolamento che richiama anche il distanziamento conseguente all’ondata pandemica dalla quale siamo usciti con ferite psicologiche ancora sanguinanti) e di entrare nella scia del flusso emotivo cangiante che scorre sotterraneo nella linea orizzontale del racconto e nelle one-lines dei personaggi che la animano. Venuti meno questi ingredienti la ricetta voluta dall’autrice, con la complicità dei suoi efficaci interpreti (tra cui Aliocha Schneider), rischia seriamente di rimanere indigesta. In tal senso, la durata che va oltre le reali esigenze drammaturgiche del racconto e il doppiaggio qualitativamente discutibile non aiutano, per cui consigliamo di usufruire ove possibile della versione originale. Uno o più cambi di ritmo invece avrebbero giovato alla fruizione di un film che in generale sul versante estetico-formale e tecnico ha più di una componente meritevole di attenzione, a cominciare dalla fotografia di Mitja Ličen e dalla colonna sonora di Silence (Primož Hladnik & Boris Benko).

Francesco Del Grosso

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