Sognando un altro mondo
Dopo The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal, opera presentata in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Netflix tiene a battesimo l’ennesimo esordio alla regia di una celebre attrice. Con Passing è il turno di Rebecca Hall, a compiere il fatidico passo da davanti a dietro la macchina da presa. Per l’occasione la nativa di Londra sceglie un intrigante racconto di Nella Larsen, ambientato negli anni venti ed incentrato sulla vicenda di due amiche afroamericano le quali si incontrano di nuovo a distanza di anni, scoprendo di avere entrambe in comune il desiderio di apparire bianche per poter accedere ad un’esistenza agiata nonché priva di ingiustizie e discriminazioni. Clare (Ruth Negga) ha già coronato, in pratica, tale ambizione. Ha sposato un ricco e sprezzante signore bianco ignaro delle di lei origini e conduce una vita all’insegna del lusso. Irene (Tessa Thompson) è invece coniugata con un medico di colore, vive ad Harlem una vita borghese assieme al marito ed i due figli. Ma il fantasma delle sue origini continua a manifestarsi, al pari di un demone mai completamente esorcizzato.
Strano lungometraggio, questo di Rebecca Hall. Incorniciato in un bianco e nero di pregevolissima fattura e dalla forte valenza simbolica – l’elegante fotografia è opera di Eduard Grau, già al lavoro con la futura regista, all’epoca ancora in modalità attoriale, in 1921 – Il mistero di Rookford (2011) – sarebbe stato lecito attendersi un melodramma acceso in cui l’aspetto sentimentale prevalesse sul resto. Al contrario Rebecca Hall, anche sceneggiatrice, opta per una messa in scena priva di particolari guizzi emotivi, molto basata su incessanti dialoghi che finiscono con il creare uno scontato effetto di saturazione nello spettatore. Nel rapporto tra le due donne, ambedue psicologicamente fragili, s’intravede anche una certa attrazione reciproca. E tuttavia l’erotismo anche solo suggerito rimane convitato di pietra, perso in una storia che vede solo la gelosia più o meno sotterranea di Irene verso Clare componente fondamentale dell’intreccio. Anche la questione razziale, in teoria punto nevralgico, rimane sullo sfondo, completamente fuori campo negli sporadici resoconti di cronaca per quasi tutta la durata del film; salvo poi deflagrare in una reazione inconsulta del marito di Clare (Alexander Skarsgård), catalizzatore sin troppo didascalico di un razzismo purtroppo sempre vitale non solo negli States ora come allora, nel corso di un epilogo che arriva abbastanza telefonato per poter anche solo sperare di risollevare dal torpore un’opera irrimediabilmente perduta nella contemplazione della propria maniera.
Quello portato a termine da Rebecca Hall è dunque null’altro che un compitino realizzato in bella copia, un esercizio di stile asettico e privo di anima del tutto incapace di costruire personaggi in grado di catturare l’empatia di chi guarda. Il sogno di un’altra vita, il sacrosanto diritto ad ambire ad un destino migliore, s’infrangono negli arzigogoli di un plot troppo debitore di una anonima provenienza televisiva assai poco incline al rischio. Probabilmente la Hall si è adeguata ai codici non scritti di Netflix, la cui direttiva principale pare sempre essere quella di realizzare, salvo rare e benvenute eccezioni, prodotti basici fruibili a qualsiasi latitudine senza troppo sforzo. Non ci si deve meravigliare, allora, se Passing risulti alla fine un film asettico, del tutto impermeabile a qualsivoglia contaminazione cinematografica. Un dramma al femminile che rimane a livello personale, senza mai assurgere a quel grado di universalità a cui forse mirava Rebecca Hall. Alla quale consiglieremmo, in previsione di un eventuale opera seconda, di provare a sporcarsi metaforicamente le mani, imboccando una qualsiasi strada che conduca al Cinema con la maiuscola. Perché in Passing sono davvero innumerevoli le potenzialità abbandonate colpevolmente a loro stesse senza averle colte.
Daniele De Angelis