Teatro e cinema: un rapporto d’amore?
Nati nel 2013 da un’idea di Ermanna Montanari e Marco Martinelli e da un’esigenza intrinseca del Teatro delle Albe di incontrarsi per confrontarsi e parlare di teatro, allargati quindi ai cittadini, ravennati e non, i Parlamenti di aprile sono seminari che riuniscono ogni anno presso il Teatro Rasi artisti, studiosi, poeti, scrittori, i cosiddetti parlamentari, che approfondiscono il concetto da loro indagato e condividono il proprio pensiero, la propria esperienza artistica e di vita con gli extraparlamentari, giovani studenti universitari, esperti di teatro, critici, e con un pubblico esterno, cui è data qui la possibilità di partecipare attivamente ad un incontro artistico e culturale di alto livello.
I Parlamenti del 2019, settima edizione della rassegna organizzata dalla compagnia teatrale ravennate Teatro delle Albe, hanno luogo dal 9 al 12 aprile presso il Teatro Rasi di Ravenna, costruito nella ex Chiesa del 1200 dedicata a Santa Chiara, e sono moderati da Rosalba Ruggeri, collaboratrice ed addetta stampa del Teatro delle Albe. L’oggetto di studio di questa edizione è il rapporto tra teatro e cinema, visto con gli occhi di chi lo fa, di chi lo dirige, di chi vi assiste.
La prima giornata ha visto protagonisti tra i parlamentari lo scrittore Oliviero Ponte di Pino, autore tra l’altro del libro “Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto“; il produttore, e fondatore nel 1979 con Mario Martone del gruppo teatrale Falso Movimento, Angelo Curti; il giornalista e critico cinematografico Luca Mosso; la studiosa, direttrice di festival ed autrice Marina Fabbri; la scrittrice ed autrice di una bella biografia di Ermanna Montanari, Laura Mariani.
Prendendo spunto proprio dal libro “Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto“, l’incontro parte con l’intervento di Oliviero Ponte di Pino, che si interroga sui cambiamenti al confine tra cinema e teatro avvenuti negli ultimi anni. Se inizialmente, per avvicinare il pubblico aduso al teatro, il cinema prende il linguaggio teatrale e lo trasferisce al cinema, in seguito costruisce una propria grammatica, un proprio linguaggio; con il successo del cinema, il teatro è costretto a ricostruire la propria identità, distanziandosi dal cinema; infine è proprio il teatro a riappropriarsi del linguaggio del cinema, della sua tecnica. Oggi, questi due linguaggi tendono ad ibridarsi. Il qui ed ora che connotava l’evento teatrale, contrapposto alla rappresentazione cinematografica, in cui lo spettatore è elemento essenzialmente passivo, con l’avvento degli smartphone, di Whatsapp, delle dirette Facebook, ha subito un cambiamento fondamentale. Oggi cinema e teatro devono, secondo Oliviero, rivedere i loro parametri e vedere cosa possono fare insieme.
Anche il produttore Angelo Curti pone l’accento sull’avvento dell’immagine digitale, che ha cambiato il modo di ‘girare’ un film; termine letteralmente superato, in quanto se prima si ‘girava’ una manovella, oggi si schiaccia un pulsante. Dalla pellicola al digitale, fare un film è diventato più alla portata di molti; ed è cambiato soprattutto il rapporto con il tempo, tra percezione, contenuti ed atto poetico. Se prima si visionava il girato una volta la settimana, oggi è tutto immediatamente disponibile, rivedibile, rigirabile, senza costi enormi. Ma anche così, il cinema oggi è in crisi; gli incassi maggiori provengono dagli eventi speciali dedicati all’arte, alla musica, allo stesso teatro. Cinema come ampliamento del già noto, non più realizzazione creativa. Il teatro invece resiste perché ha il suo punto di forza nel suo rapporto con gli spettatori, che sono coinvolti nel microcosmo teatrale.
Nel suo passaggio dal teatro al cinema e viceversa, Curti ha coniato il termine anfibio, mammiferi che riescono a vivere in acqua, per descrivere quegli attori che, pur appartenendo ad un ambiente, quello teatrale, riescono a sopravvivere in un altro, quello cinematografico. Per Curti, in particolare, gli attori in scena a teatro sono mammiferi, musicisti e cantanti uccelli, danzatori e mimi rettili, gli attori di cinema pesci. Una classificazione in parte veritiera, ma in profondo mutamento; sempre più infatti, assistiamo ad una “ibridazione della specie”: oggi, secondo Curti, siamo tutti anfibi nel DNA.
Il critico Luca Mosso affronta l’argomento dal punto di vista dello spettatore; partendo dal provocatorio articolo di Goffredo Fofi, secondo cui il vero cinema italiano sta a teatro, Mosso vede lo spettatore teatrale vivo, partecipe, contrapposto al cinefilo, oggi sempre più solo davanti allo schermo di un computer. Prende ad esempio The Brig di Mekas, documentario in cui Mekas entra ed esce dalla rete, si muove con gli spettatori, introducendo quel che nel teatro non c’è: il fuoricampo. Il fulcro è il desiderio: racconta con un punto di vista parziale il desiderio dello spettatore di essere in un posto dove non può essere.
Marina Fabbri, formatasi sotto il faro del teatro polacco, non vede invece una differenza marcata tra questo ed il cinema; ad esempio, nel teatro russo c’è tutta una terminologia, un linguaggio, che rimanda al cinema. Oggi, secondo la Fabbri, non esiste più l’anfibio, ma piuttosto un nuovo animale, una sintesi finale: il “corpo senza organi” di Artaud. Come esempio italiano, la Fabbri porta quello di Vinicio Marchioni, attore teatrale tornato al teatro dopo cinema e tv, autore, insieme al suo gruppo di attori, di un documentario su Cechov, autore da lui scelto per condurre, attraverso lo zio Vanja, una analisi sul tema dell’attore e sulla sua insensatezza, il suo ballare sull’orlo del baratro, paragonata alla insensatezza ed al baratro in cui versa il nostro paese oggi.
Infine, la scrittrice e biografa Laura Mariani, porta l’attenzione sul teatro e sugli attori. Partendo proprio dalla sua biografia di Ermanna e dal film Vita agli arresti di Soon Aung Suu Kyi, nato proprio nel microcosmo del Teatro delle Albe, si interroga sulle motivazioni che spingono un grande gruppo teatrale a fare un vero film. Il teatro è, fin dai tempi della Commedia dell’Arte, una famiglia: un microcosmo in cui l’attore si muove e da cui ai sente protetto; con la crisi di questo microcosmo, gli attori di teatro sono spinti ad una omologazione sociale, da cui nasce il bisogno di proteggere la loro diversità spostando la sperimentazione. Ma a confronto col microcosmo teatrale, il cinema è ‘un gran campeggio’; l’attore teatrale che passa al cinema è un anfibio ben conscio di essere un mammifero: e si tiene ben stretto lo zoccolo duro della propria esperienza teatrale. Il film girato da Marco Martinelli, di cui Ermanna Montanari è la principale interprete, sposa in maniera perfetta teatro e cinema: girato proprio al teatro Rasi, mantiene intatto il microcosmo del Teatro delle Albe, nato anni fa dal microcosmo di Marco ed Ermanna, un microcosmo nato per amore, reciproco e per il teatro, sposandolo con tecniche cinematografiche quali l’abbondanza di primi piani, con i quali l’anima dell’attrice, tutelata sul palco dalla distanza e dall’artifizio teatrale, si mette a nudo. Il lavoro sul personaggio, poi, sul suo stato di coscienza, le sue emozioni, la sua postura, si equivale al cinema come al teatro; l’attore e l’attrice teatrali cercano la propria luce nel personaggio: non è solo la voce, a recitare per l’attore, ma anche questa luce. La Montanari non è un anfibio, ma un mammifero assoluto: eppure interpretando Soon Aung in questo film si è abbandonata, mostrando l’attrice che travalica il guado e mostra sullo schermo il suo personaggio.
Sintesi finale dell’incontro è proprio la testimonianza dell’attrice sul rapporto tra questi due mondi contrapposti eppure in qualche modo simili. Il cinema sconvolge il lavoro tipico dell’attore di teatro, fatto di prove e piccoli riti, di tempi tutti suoi; il teatro richiede una presenza. Sul palco, l’attore è parte dell’opera insieme al suo pubblico. L’opera si compie li, in quel momento. Lo spettacolo cambia ogni sera anche perché cambia il pubblico. Invece al cinema l’opera sarà completata senza l’attore. L’attore di cinema non ha più il controllo. Saranno il regista e il montatore del film ad averlo. La differenza è qui, tra prodotto e relazione, tra spettatore e pubblico, come evidenziato anche da Ponte di Pino e da Mosso: il film è un prodotto, visto da un pubblico; a teatro invece si crea una relazione tra l’attore e lo spettatore, che può entrare nello spettacolo quando vuole.
Michela Aloisi
Il fatto di condividere quest’esperienza così formativa con Michela Aloisi, entrambi nelle vesti di “extraparlamentari”, mi pone innanzitutto nella condizione di specchiarmi nel sunto così brillante e accurato di questa prima giornata dei Parlamenti di Aprile, da lei proposto: un’occasione davvero unica, quella che si sta concretizzando qui a Ravenna, di portare avanti un dialogo, uno scambio di idee sempre più fitto, un desiderio di approfondire tematiche troppo spesso sacrificate negli stessi incontri tra addetti ai lavori. Come ad esempio la complessità del rapporto tra cinema e teatro.
La particolare intensità e ricchezza di questa prima seduta, che ci ha testimoniato minuziosamente Michela, apre già svariati spazi di analisi, di riflessioni. Ed è proprio negli interstizi degli interventi appena esposti, che vorrei inserire qualche considerazione personale, pronto magari a condividerla con gli altri “extraparlamentari” in uno di quei piccoli incontri inter nos che vanno ad affiancare i lavori.
Prima di tutto un discorso che mi sta molto a cuore, quello centrato sullo spettatore ed introdotto con apprezzabile ironia da Luca Mosso. Tenderei semmai ad estremizzare il suo ritratto al vetriolo del cinefilo attuale, così apatico, sempre più solo davanti allo schermo di un computer o di un telefonino, non più mosso dalla curiosità di abbandonare la propria solitaria (e solipsistica) postazione, per andare a scoprire luoghi dove il cinema possiede ancora qualche forma di vitalità; ecco, a tal proposito, colpisce il fatto che molti di questi cinefili mummificati, in perpetua adorazione di pochi grandi autori finiscano per sacrificare qualsivoglia interesse per altre forme di cinema, ad esempio quei prodotti culturali proposti in sala per pochi giorni e correlati direttamente ai grandi maestri della storia dell’arte, alla musica, all’animazione e al fumetto giapponese, al teatro stesso. Alla faccia di questo disinteresse esibito spesso con grossolana spocchia, tali spettacoli sono tra i pochi nel desertificato panorama delle sale italiane ad apparire in crescita. E questo conduce a mio avviso alla positiva scoperta di un pubblico diverso, che si sta ancora formando, immune alla dittatura dello “specifico cinematografico” e desideroso di riappropriarsi della sala per condividere con altri le proprie passioni, passioni che vedono la forma cinematografica ibridarsi fecondamente con altre forme espressive.
Un’ultima notazione vorrei farla in relazione all’interessantissima testimonianza di Marina Fabbri, riguardante la reciproca diffidenza manifestata da alcuni grandi nomi della scena polacca, attivi rispettivamente nel cinema e nel teatro, rispetto all’altrui linguaggio. Se ad esempio un maestro del cinema come Krzysztof Kieślowski guardava con malcelato sospetto all’ascetica ricerca teatrale di Grotowski, nonostante i potenziali punti di contatto tra le loro poetiche, quest’altro lo ricambiava con altrettanta, sprezzante indifferenza. Colpisce semmai aver sentito a volte accostare al nome di Grotowski quello di Eugenio Barba e del suo Odin Teatret, nel nome di una simile insofferenza nei confronti di un filtro cinematografico, avvertito qualche decade fa come improprio. Positivo è allora il fatto che l’Odin, nella sua continua evoluzione, abbia acquisito col tempo maggior dimestichezza con un uso intelligente e creativo dello strumento cinematografico, fattore questo presente anche nell’assistenza al montaggio fornita dallo stesso Barba a La vita cronica di Chiara Crupi, versione cinematografica di un suo spettacolo.
Stefano Coccia
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