La parola alle immagini
L’ultima giornata dei Parlamenti di aprile è stata venerdì 12 aprile. Ed è iniziata in modo diverso dalle altre: ridotte al minimo le presentazioni, contrariamente a quanto era avvenuto nei giorni precedenti si è dato il via ai lavori direttamente dal palco del teatro, con uno schermo bianco già pronto ad accogliere immagini in movimento, così da mettere subito a suo agio l’ospite di giornata più atteso. Ovvero Gian Luca Farinelli, vulcanico direttore della Cineteca di Bologna.
Marco Martinelli ha voluto ricordare il loro primo incontro a Calitri, in occasione del festival ideato dall’amico Vinicio Capossela, dove c’era stato spazio anche per una “lectio magistralis” dell’affabile ed eruditissimo storico del cinema, capace di affascinare il pubblico al punto che durante il suo lungo intervento non si era sentita volare una mosca. Trascorso un po’ di tempo, Marco ha pertanto approfittato del fatto che ai Parlamenti di aprile vi fosse un filo conduttore adeguato per invitare a sua volta Farinelli.
Prendendo quindi come spunto iniziale il rapporto tra cinema e teatro, dopo aver aspettato che si abbassassero le luci, lo studioso ha dato vita ad un’altra “lectio magistralis” di rara brillantezza, sia per la verve dell’esposizione che per le illuminanti scelte di repertorio e per quelle scene ora famosissime e ora alquanto rare, proiettate lungo l’incontro.
Non ci sogniamo certo di replicare qui l’iter completo della “lectio magistralis”, evento magico e irripetibile. Estrapoliamone semmai qualche momento, giusto per segnalare quale agevole sommario alcuni dei tanti spunti validi e stimolanti emersi durante la lunga affabulazione.
In principio Farinelli, con eleganza e cordialità, ha ringraziato i presenti per la loro partecipazione approcciando la platea alla maniera di Monicelli, che una volta a Bologna si era rivolto al pubblico scherzando sullo spirito di sacrificio di chi era venuto lì ad ascoltarlo: “Beh, non avete nulla di meglio da fare?”
Citati nell’intro nomi importanti come Visconti, Ronconi e Carmelo Bene, il relatore ha voluto poi far partire il suo illuminante compendio di intersezioni tra cinema e teatro proprio dall’inizio, ovvero dai fratelli Lumière. Giovanissimi, con lo strumento da poco brevettato filmarono nel marzo 1895 L’uscita dalle officine Lumière (La sortie de l’usine Lumière), che sarebbe poi stato il piatto forte del primo spettacolo a pagamento tenutosi il 28 dicembre a Parigi al Grand Café sul Boulevard des Capucines. Spesso citato, in modo un po’ superficiale, come il primo documentario della Storia, questo esordio di Auguste Marie Louis Nicolas e Louis Jean Lumière rivela semmai altri aspetti, ad un’analisi più attenta: la metodica preparazione e messa in scena di quella situazione, la teatralità esasperata dei gesti di coloro che venivano filmati per la prima volta, la presenza o meno in scena della carrozza che avrebbe avuto un ruolo di spicco, all’interno della pur breve narrazione; tutte questioni che Farinelli si è divertito a commentare, mostrando al contempo le diverse versioni che ci sono giunte di tale opera.
Sempre sul solco dei Lumière e di quanto girato da quei loro operatori sguinzagliati in giro per l’Europa, dopo il successo commerciale del cinematografo, Farinelli ha voluto regalare al pubblico di Ravenna le preziosi immagini di Cuffie della Frisia, produzione Pathé avviata verso il 1910 in territorio olandese. Quasi dei “selfie all’epoca in cui non vi erano i selfie”, per riproporre una divertita osservazione di Farinelli stesso. Sguardi diretti delle donne in macchina. L’ostentazione da parte loro dei merletti e delle cuffie più belle di ogni regione. Spazio inoltre per ragionare anche sul laborioso processo di colorazione della pellicola, un artigianale e parziale intervento avviato in quegli anni assieme a una serie di trucchi ottici, di manipolazioni, in cui si erano rivelati particolarmente abili altri pionieri come Melies, che non a caso aveva già lavorato a lungo coi fondali di cartapesta dei teatri.
Meraviglioso poi l’ingresso dei comici in questo frastagliato racconto cinematografico: su tutti Tontolini a.k.a. Ferdinand Guillaume, discendente di una famiglia di circensi d’Oltralpe trasferitasi poi dalle parti di Brescia, che avrebbe avuto in seguito diversi epigoni, come ad esempio Cretinetti. Di Tontolini abbiamo potuto visionare una comica invero rivelatrice, nell’accostare tra loro le differenti reazioni emotive suscitate dal teatro, dal circo e infine dalla settima arte, l’unica qui in grado di guarire completamente i malumori del protagonista.
Sempre a proposito di “prestiti” dal teatro coronati da grande successo, un ruolo importantissimo fu quello delle prime dive del muto. Soprattutto italiane. L’apripista fu senz’altro Lyda Borelli, che grazie al personaggio di Salomè era stata consacrata nell’olimpo del teatro e che era nota soprattutto per la bellissima voce. Proprio la voce dovette sacrificare quando, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, accettò di lavorare per il cinematografico, trovando subito una nuova cifra interpretativa che per l’espressività delle sue movenze avrebbe fatto scattare lusinghieri accostamenti. Noto quello di Gramsci, che la accostava alle artiste del balletto balinese.
Altrettanto di impatto la presenza sugli schermi di Francesca Bertini, che aveva già interpretato in teatro Assunta Spina di Salvatore Di Girolamo, assicurando poi l’irrompere di quel naturalismo e di quelle spinte sociali anche in ambito cinematografico. Memorabile e rappresentativo il modo di giocare in scena con lo scialle, da parte di quest’altra diva su cui Farinelli si è soffermato a lungo.
A proposito di soffermarsi, la disamina fin qui era stata talmente dettagliata che, per una ragione di tempi da rispettare, il relatore ha dovuto poi modificare il percorso, tagliando alcune figure che avrebbe volentieri analizzato. Mastroianni, per esempio. Ma non si è congedato dal pubblico ravennate prima dei due ritratti proposti, forse, con il maggior slancio, quelli di Vittorio De Sica e di Roberto Benigni. Per quanto riguarda quest’ultimo sarebbe più giusto dire il primo Benigni, visto che la carica davvero dirompente del suo personaggio (e del suo linguaggio) è stata qui circoscritta alla folgorante apparizione cinematografica di Cioni Mario, a Berlinguer ti voglio bene, al suo sodalizio artistico con Giuseppe Bertolucci, il tutto anticipato da non meno rivoluzionarie e innovative presenze nei teatri d’avanguardia a Roma, testimoniate anche da qualche intervista televisiva da noi visionata in teatro. Più articolata e complessa, al contrario, la parabola di Vittorio De Sica, un artista a tutto campo nei riguardi del quale Farinelli è riuscito innanzitutto a comunicare un grandissimo amore, ripercorrendo le tappe di una carriera nata a teatro, inglobando tanto un sapido registro comico che doti di cantante e persino ballerino (memorabile, nel Dopoguerra, la sua performance al fianco di Sophia Loren), e che ha conosciuto nel corso del tempo svariate trasformazioni, compresa quella sterzata verso la regia che avrebbe portato alla realizzazione di alcuni dei più grandi capolavori del cinema italiano; nonostante i litri di bile e le successive reprimende di Giulio Andreotti, implacabile inquisitore democristiano che all’apparire del Neoralismo, come un toro… vedeva rosso.
Nella giornata conclusiva dei Parlamenti di aprile, è stato presentato anche il progetto di cinema per le scuole Visioni Fantastiche, festival che si svolgerà a Ravenna dal 21 al 29 ottobre.
Presentato da Franco Calandrini e Maria Martinelli, il progetto ha radici lontane, dal modello tedesco della sezione Kinder Kino portato a Imola 15 anni fa e ripreso oggi dopo l’esperimento riuscito della sezione Nightmare School all’interno del Ravenna Nightmare. Visioni Fantastiche è la sintesi dei due aspetti formativi per le scuole: con una parte competitiva, che richiama il Giffoni, ma con laboratori giornalieri, masterclass, anteprime serali.
Calandrini, nell’ambito del rapporto tra teatro e cinema, oggetto di questi Parlamenti 2019, descrive lo stretto legame tra le due arti e la comunità di riferimento. Sia il teatro che il cinema, infatti, per sopravvivere necessitano di questa comunità che condivida il lavoro che viene portato avanti. Ecco il perché dei festival. A Ravenna questa comunità esiste; mancava una casa, per riunirla, è questa casa è il festival. Punto d’incontro importante per la comunità di oggi, ma che punta al futuro portando i bambini al cinema con il progetto Visioni Fantastiche che prende il via quest’autunno.
A seguire, l’ultimo incontro è stato quello con Martina Biondi, che ci ha presentato il film di Silvio Soldini sul poeta dialettale Raffaello Baldini. Film ideato da lei stessa e sceneggiato a quattro mani, nasce dal suo desiderio di riprendere il lavoro fatto dal marito, una registrazione delle poesie di Baldini recitate dal poeta stesso, veicolandolo in un film, per portarlo fuori dalla Romagna. La Biondi ci racconta come il lavoro stesso di suo marito sia scaturito da un ‘segno’: sistemando un tubo sotto il lavello, sente alla radio la poesia di Baldini “Scarico”. Sarà l’inizio dell’avventura nel mondo di Lello, che dal suo progetto ha portato al film Treno di parole- viaggio nella poesia di Raffaello Baldini“. Un film che non racconta Baldini e la sua poesia, ma che piuttosto ce li trasmette entrambi. Presentato in anteprima alla 13a edizione della Festa del Cinema di Roma, lo scorso ottobre, il film raccoglie preziose testimonianze; da quella della figlia del poeta, Silvia Baldini, a quelle di artisti, scrittori, poeti; tra questi, Ivano Marescotti e Gigio Alberti, che han portato in scena i suoi monologhi teatrali, ma ancora gli stessi ideatori dei Parlamenti di aprile, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, e poi Rudy Gatta, Vivian Lamarque, Gianni Fucci, Silvio Castiglioni, e altre voci che ci han fatto vivere la storia e la poesia di Lello. La visone del film è l’atto conclusivo dei Parlamenti di aprile 2019 organizzati a Ravenna dalla compagnia Teatro delle Albe. E come in una rappresentazione teatrale, è stato per i partecipanti, un bel ‘finale ad effetto’.
Michela Aloisi e Stefano Coccia