A modo mio
Sempre più spesso gli attori diventano registi di se stessi, in teatro come al cinema, oltre che autori.
Nell’esordio dietro la macchina da presa di Eleonora Danco, conosciuta al grande pubblico più come interprete di fiction e film, si trova tutto il suo mondo con cui già aveva iniziato a coinvolgerci in teatro. Con N-Capace traccia un ideale ponte tra il suo lavoro con lo spettacolo dal vivo e il “prodotto” finito e compiuto visibile sullo schermo. Sperando in una distribuzione supportata anche da incontri con l’autrice, questa pellicola potrebbe essere un’occasione per avvicinare una più larga fascia di spettatori alla sua poetica e a un modo di vivere e fare arte diverso da quello che si aspetta il pubblico “piccolo borghese”. Quest’ultima è un’etichetta che spesso si associa a chi segue il teatro cosiddetto tradizionale, che tenta a suo modo di sdoganarsi. La drammaturgia contemporanea cerca di scardinare le etichette e interpellare sempre più la gente che diventa co-protagonista. In N-Capace le tante azioni che accadono vengono determinate principalmente da un’interazione diretta e senza filtri con tutti coloro che la Danco incontra. Si tratta di persone a lei care, come suo padre, sua nonna, ma anche di sconosciuti, tutti legati da un preciso disegno registico: intervistare ragazzi e anziani, manca la cosiddetta età di mezzo, che, potremmo pensare, sia rappresentata dalla stessa attrice, ma non tutto è come sembra. Lei è l’Anima in pena, colei che si interroga vagando per mari e monti e, al contempo, traghetta, interroga e provoca in preda a domande esistenziali semplici, ma a cui nessuno riesce a dare una risposta univoca.
Sarebbe riduttivo definirle interviste ed è la stessa regista a dichiararlo: «non ho mai pensato di fare delle interviste, ma delle performance. Delle installazioni fisiche per arrivare alla memoria». Ci teniamo a precisarvi che anche nelle situazioni apparentemente più bizzarre – come possono essere le anziane in una foresta in posizioni particolari – tutto ha un senso. Ispirandosi alla pittura di De Chirico e Giotto e al cinema surrealista, riesce a rendere sia giovani che anziani protagonisti di performance, questi si rotolano, si mettono in posa secondo le sue indicazioni, talvolta si “ribellano” (soprattutto il padre). Fa emergere quell’autenticità della gente verace, da Tor Bella Monaca a Terracina, passando per diversi quartieri romani, le persone rispondono su sfere anche intoccabili (in particolare per chi è nato molti anni fa) come il sesso, la morte, l’amore, la violenza, l’aldilà. Temi triti e ritriti penserete, ma la Danco lo fa a modo suo, forte di quel linguaggio schietto, ironico e pungente che emerge nel voice-over (raggiungendo un certo aulicismo – sempre, però, comprensibile – con punte di lirismo) e nelle domande, tese a scavare e stuzzicare.
Presentato in concorso alla 32^ edizione del Torino Film Festival, N-Capace pulsa di quell’energia viva sempre in divenire, come se la performer volesse catturare con la macchina da presa dei momenti nel tentativo di rifuggire dall’idea di “finito”. Questo differenzia il cinema dal teatro, dove tutto riaccade e nel caso di alcuni spettacoli, in cui il pubblico è più attivo di quanto non lo sia solitamente, tutto può succedere. Anche nello spettacolo del 2000, “Nessuno ci guarda”, aveva toccato il tema della memoria, impastando mani, voce, corpo; qui riallaccia quel filo e chiama ancor più noi in causa stimolando anche l’inconscio.
Dialogando con le persone, tira fuori ciò che hanno da dire, ma gioca anche con l’idea di poterli “manovrare” come materia che interagisce con l’ambiente, come corpi che in una particolare messa in quadro rilanciano delle suggestioni.
Vedendola nelle sue performance di Anima in pena, richiama a tratti anche l’approccio fisico di Marina Abramovic; non vogliamo fermarci a confronti, il punto è, invece, quanto l’artista italiana riesca a creare un proprio percorso con cui “scandalizzare”. Sì, perché quando, ad esempio, provoca con una performance i passanti vicino l’ex Mattatoio di Testaccio, tutti istintivamente guardano esterrefatti, poi, quando la “novità” è conclusa, riprendono ciò che stavano facendo, girandosi da un’altra parte senza forse neanche riconoscere l’atto creativo e di denuncia.
Forte di un jump cut che scandisce il ritmo – esaltato dalla musica elettronica di Markus Acher, l’opera prima della Danco ci trascina tra risate e commozioni in un mare di riflessioni e volti, ci fa quasi toccare quei luoghi e quei quadri umani, risvegliando la nostra parte di “anima in pena”.
Maria Lucia Tangorra