Battesimo di fuoco
Un finale travolgente e inaspettato, una mitragliata di dialoghi che stordisce, un racconto che accelera sempre di più sino a togliere il respiro, un controllo ottimale del ritmo, una gestione perfetta dei registri e un disegno chiaro dei personaggi: sono gli ingredienti che fanno della sceneggiatura di Mange tes morts la base solida sulla quale Jean-Charles Hue costruisce la sua opera terza dopo Carne viva e La BM du Seigneur.
La pellicola del regista francese approda in concorso alla 32esima edizione del Torino Film Festival dopo la fortunata presentazione in quel di Cannes nella sezione Quinzaine Des Realisateurs. Hue torna a parlare del mondo gitano, un mondo che ha avuto modo di esplorare nei lavori precedenti, in particolare nel già citato La BM du Seigneur, ambientato nella comunità nomade degli Yèniche e nel quale racconta le disavventure quotidiane della famiglia Dorkel, la stessa che anima Mange tes morts. Il plot ci porta nella periferia parigina, nel campo dove i Dorkel vivono da qualche anno.. Mentre si prepara il battesimo del diciottenne Jason, torna dalla prigione il figlio maggiore Fred, che ha scontato quindici anni per l’omicidio di un poliziotto durante un furto. L’uomo appare tutt’altro che redento dalla reclusione: dopo essere tornato in possesso della sua amata BMW Alpina, tenuta nascosta in un garage, organizza su due piedi una scorribanda a tutta velocità sulle tracce di un carico di rame da rubare. Al suo fianco il cugino Moïse, il fratello Mickaël, violento e insicuro, e il giovane Jason, che vede in lui il depositario di valori antichi e conoscenze esoteriche che lo affascinano ma che lo mettono in conflitto con il desiderio di essere un buon cristiano.
Hue cuce con maestria una breve saga familiare dalle tinte noir, capace di cambiare pelle e trasformarsi al primo giro di boa in un road movie folle e ipercinetico, tanto folle, serrato e sopra le righe da scomodare persino il cinema di Ritche. Al suo interno si consumano i destini dei quattro personaggi principali, tre fratelli e un cugino, che sono mine vaganti pronte ad esplodere in qualsiasi momento. Tra passato e presente, i ricordi dei bei tempi che furono si sovrappongono con una quotidianità in cui i furti e le scorribande sono pratiche messe da parte per fare spazio alla religione e al rispetto delle regole. Ciò crea inevitabilmente un cortocircuito e spezza l’equilibrio così faticosamente instaurato nella comunità che ospita la famiglia. Questa rottura rappresenta il baricentro del plot e della sua trasposizione. Il risultato è una storia di criminalità, ma soprattutto di crescita, redenzione e legami di familiari, quelli che nemmeno il carcere, la lontananza o i dissidi riescono a cancellare. E la mente non può che tornare a un film come Animal Kingdom di David Michôd.
Anche se ci mette qualche minuto di troppo a carburare, Mange tes morts resta comunque una piccola perla da non perdere, vuoi per il valore intrinseco espresso dalla scrittura, vuoi per la regia essenziale, ma tremendamente incisiva, diretta (riprese in stile documentaristico) ed efficace, con la quale Hue tramuta in immagini le tante parole racchiuse nello script. La macchina da presa non si stacca mai dai personaggi, tanto da diventare a sua volta un personaggio che partecipa all’azione. Ma il vero motore portante dell’opera è lo straordinario quartetto che davanti alla macchina da presa offre un performance di altissimo livello.
Francesco Del Grosso