Tanto rumore per nulla
All’interno della variegata offerta presentataci ogni anno dal Torino Film Festival, particolarmente degna di nota si è spesso rivelata la sezione After Hours. Eppure, purtroppo, anche in questo settore si possono trovare, di quando in quando, prodotti che convincono poco. Uno di questi, ad esempio, è l’opera prima dell’attrice e regista spagnola Ana Asensio, che ha scelto gli Stati Uniti – e, nello specifico, New York – come location ideale per il suo Most Beautiful Island, dove interpreta anche il ruolo della protagonista. Il lungometraggio, presentato all’interno della suddetta sezione alla 35° edizione del Torino Film Festival, appunto, mette in scena la storia di una giovane immigrata che, però, potrebbe anche essere la storia di qualsiasi altra donna in gravi difficoltà economiche.
E così, in una caotica New York dei giorni nostri, la macchina da presa inizia a seguire le vicende di Luciana, avvenente ragazza spagnola con un difficile passato alle spalle, la quale, al fine di iniziare una nuova vita, ha deciso di trasferirsi lontano dal suo paese di origine. La crisi economica e, soprattutto, il fatto di ritrovarsi da sola in un paese straniero, le impediranno di trovare una propria stabilità. La donna, costretta a dividersi tra più lavori, finirà per accettare un misterioso incarico, molto ben pagato, presso una festa privata.
Seppur ricca di spunti interessanti, come già accennato in precedenza, questa opera prima della Asensio, al termine della visione, convince davvero poco. E ciò dipende soprattutto dallo script (realizzato dalla stessa regista): una storia eccessivamente povera che, pur promettendo molto man mano che ci si avvicina al finale, finisce irrimediabilmente per sgonfiarsi come un palloncino, trasmettendo allo spettatore uno spiacevole senso di incompiutezza. Eppure, di spunti interessanti ce n’era eccome. La situazione di partenza, ad esempio, sembrava promettere molto. Stesso discorso vale per quanto riguarda la regia, incredibilmente matura nonostante la scarsa esperienza della Asensio dietro la macchina da presa: con una tecnica quasi zavattiniana, l’obiettivo non perde mai di vista la sua protagonista e, allo stesso modo, sa ben rendere la confusione ed il senso di spaesamento che si può provare all’interno di una città come New York, grazie ad immagini non sempre a fuoco (soprattutto per quanto riguarda le persone incontrate per strada) ed un costante uso di camera a spalla.
Dal genere prettamente drammatico, però, si finisce per passare quasi al thriller, nel momento in cui vediamo la protagonista raggiungere il misterioso luogo dove si svolge la festa. E la cosa andrebbe anche bene, se non fosse, appunto, per la povertà della sceneggiatura in sé che, a causa di una struttura eccessivamente scarna, non fa che rendere il tutto pericolosamente sfilacciato e privo di unità tematica.
Uno dei pochi elementi, unitamente alla regia, che in Most Beautiful Island sembra tuttavia funzionare è proprio la protagonista, la quale regge bene la scena più per la sua espressività che per la sua caratterizzazione all’interno dello script stesso. Poco o nulla si dice, ad esempio, del suo passato. L’unica cosa che si può intuire è che, molto probabilmente, la donna sia colpevole della morte prematura della sua figlioletta. Grave errore, dunque, tirare in ballo un elemento di tale portata, per poi abbandonarlo completamente.
Peccato, dunque, che un prodotto promettente come questa opera prima della Asensio sia stato sprecato così. Non vi sono dubbi, infatti, sulle potenzialità registiche della giovane interprete. Chissà, magari in futuro, con altri lavori, riuscirà anche a riscattarsi. A patto che non la si faccia scrivere, però.
Marina Pavido