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Masterclass con Pierfrancesco Favino

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L’attore romano incontra il pubblico del Bif&st 2018

Si sono aperte le danze della nona edizione del Bif&st – Bari International Film Festival e non poteva avvenire in un modo migliore in una manifestazione cinematografica che è pensata (sarebbe quasi meglio dire “devoto al”) per il pubblico. Diversi spettatori hanno scoperto Pierfrancesco Favino con Sanremo, ma molti altri già avevano avuto modo di apprezzarlo per i volti a cui ha dato espressività e anima nella sua longeva carriera. È proprio da qui che il critico cinematografico, Fabio Ferzetti, è partito nell’avviare la master class (dopo la proiezione di A.C.A.B. – All Cops Are Bastards di Stefano Sollima) molto partecipata sia dall’artista che dalla platea.

Ripercorriamola insieme…

Fabio Ferzetti: Son trascorsi ormai più di venticinque anni dai tuoi esordi e ben settantasei titoli, passando da un opposto all’altro e dimostrando una presenza fisica indubitabile.
Come mai tanta varietà nelle tue scelte? [e cita due esempi emblematici, il celerino di A.C.A.B e Pinelli in Romanzo di una strage]
Pierfrancesco Favino: Ho sempre pensato che la veste dell’attore fosse proprio questa. Ho una faccia ‘facciosa’ che può essere anche ingombrante e che, paradossalmente, mi ha permesso di fare cose diverse proprio perché duttile. Io sono un tipo di attore che si modella in base a ciò che va a fare. Ho deciso di intraprendere questa professione perché mi piace l’essere umano e affrontare gli opposti è un altro privilegio pazzesco che mi ha offerto e continua a offrirmi questo mestiere, come quando nel giro di due mesi mi sono trovato a interpretare il poliziotto fascista di A.C.A.B. e l’anarchico Pinelli in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Credo che, in ognuno di noi, in potenza, ci siano gli opposti; detto questo, poi entra in campo ciò che vogliamo essere e i valori che abbracciamo.

F.F.: Com’eri da piccolo?
P.F.: Ho sempre saputo di voler fare l’attore, ma con quella meravigliosa incoscienza che ancora oggi mi fa dire: «ma siamo sicuri?»
Non ho mai provato quel momento in cui, concluso il liceo, arrivi a domandarti: «ma dove voglio andare» ed è stato un privilegio anche questo. Se sentivo un suono lo imitavo, sono sempre stato molto curioso e passavo le ore davanti al piccolo schermo guardando i film di Totò.
In più i miei genitori sono sempre stati appassionati di teatro, a 8 anni sono andato a vedere ‘Don Carlos” di Schiller (1983), per la regia di Gabriele Lavia e ricordo come mia madre e mia sorella si addormentarono, io no. Ero completamente catturato da questi uomini che si muovevano nella “scatola nera” e lì realizzai ulteriormente quanto desiderassi essere io, un giorno, al loro posto.
Quando mi son presentato in Accademia [si riferisce alla Silvio d’Amico] portai due pezzi comici, ma mi fecero recitare in “Romeo e Giulietta”.

F.F.: Hai fatto personaggi ispirati dalla realtà e inventati. C’è un grande bivio?
P.F.: Senz’altro [e precisa] io preferisco i termini essere umano e individuo.
Quando hai a che fare con una persona realmente esistita si pensa che il lavoro sia già fatto, ma non è così. C’è una fase in cui entra in campo la sacrosanta libertà dell’artista.
Ad esempio, per quanto riguarda Pinelli è stato fondamentale incontrare la moglie e le figlie, mai nella mia vita ho sudato così, è stato un ‘caffè western’. Giustamente la vedova era diffidente e, per me, era essenziale che loro accettassero che un emerito sconosciuto, entrando in casa loro, potesse dire: «salve, io devo essere suo marito» o, nel caso delle figlie, il padre. Se accadesse a me sarei molto infastidito. Ci siamo recati io e Michela Cescon (che dà volto a Licia Pinelli, nda), ma prima inevitabilmente c’era stato un percorso di avvicinamento da parte di Marco Tullio Giordana e dalla produzione. I personaggi che facciamo [e cita anche Di Vittorio, Ambrosoli] sono memoria dei momenti che abbiamo vissuto prima di tutto nella fase preparatoria, di ricerca.
Per quanto riguarda A.C.A.B. ho trascorso del tempo con chi davvero svolge quel lavoro, sono stato allo stadio a osservarli sul campo, ho preso dimestichezza con scudi e manganelli per poi scoprire che anch’io potrei usarli se dovessi essere aggredito. Mi era già capitato in un altro film, Romanzo criminale, quando mi sono trovato con una pistola tra le mani. Non sono mai stato un appassionato di armi, ma calato in quel ruolo, ho scoperto che tipo di reazione potessi avere tenendone una in mano.
Nel caso del film di Sollima, nello specifico, mi sono preparato con una persona che non avrei mai incontrato nella mia vita: un convinto celerino di destra. Lui guardava me col disprezzo con cui può guardare un progressista, io lui con la diffidenza con cui posso guardare una persona che ha delle idee politiche così forti. Frequentandolo ho scoperto che aveva in casa i busti di Mussolini e le immagini di Che Guevara e, al contempo, era un amorevole padre separato, lottandosi anche per i diritti dei padri separati. Questo per dire che l’essere umano non è mai una cosa sola. Non mi interessa raccontare le categorie, l’identità artistica mi è più a cuore rispetto a quella sociale.
Penso che ci siano un’ipocrisia, una paura e una censura di fondo molto perbeniste. Tutti noi abbiamo degli istinti, un altro aspetto positivo del mio lavoro è che ti dà la possibilità di sollecitarli e prendere consapevolezza dei rischi che questo comporta.

F.F.: Come si è evoluto il rapporto tra te e il celerino con cui ti sei preparato?
P.F.: Ci siamo sentiti e scambiati dei messaggi. Lui è convinto di quello che ha fatto [si riferisce a Bolzaneto]. Rimane che io penso che lui abbia sbagliato e lui che io non abbia capito; così come resta il libero arbitrio e quello che decidiamo di essere.

F.F.: Parlando di un altro salto mortale…puoi anticiparci qualcosa de I moschettieri del Re di Giovanni Veronesi? (il film è atteso per il periodo natalizio)
P.F.: Sta per cominciare quest’avventura, [scherza] con questi baffi chi potrei essere? Ovviamente D’Artagnan. Nel cast ci sono Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo [lo imita] e Sergio Rubini. Si tratta di un film molto divertente, era da un po’ che non si girava in Italia un lungometraggio di cappa e spada e ci stiamo preparando anche fisicamente.

F.F.: Come si fa a passare, in breve tempo, da D’Artagnan e Buscetta? (si tratta del nuovo progetto di Marco Bellocchio)?
P.F.: Sono molto felice di avere questo problema. Buscetta è un film che ho inseguito per tanto tempo, lui è un personaggio che è tanti personaggi quanti sono i Paesi che ha dovuto cambiare. Ha moltissimi lati interessantissimi, che sono felicissimo di poter andar a scavare. Mentre giravo Muccino preparavo il provino con Bellocchio e vista la sentenza ultimissima sulla trattativa Stato-Mafia, direi che il tutto si arricchisce di ulteriori riflessioni.
Venendo alla domanda, direi che cerco di metter insieme tempo e testa.

F.F.: Quando scatta il clic tra te e il personaggio?
P.F.: Quando non parla e ho compreso cosa pensa. Io non devo farti capire mai cosa penso del personaggio, devo lasciare libero lo spettatore di vedere quello che lui vede in quell’uomo che sto interpretando.
Non esiste che imponi i propri sentimenti o la comprensione personale del personaggio. Io sono la maniglia di una porta, sono uno strumento, non posso essere l’oggetto. Devo andar a vedere un film o uno spettacolo riguardando una parte della mia vita, non cogliere l’ego dell’attore.

F.F.: Queste tue parole mi danno il là per un altro interrogativo. Non ricordo quale artista l’abbia detto che l’attore non deve stare né davanti né dietro il personaggio, ma accanto, per poter avere un dialogo. Tu sei d’accordo?
P.F.: Non mi interessa dove l’attore sta nei confronti del personaggio perché non c’è il pubblico, che è il protagonista.
L’attore deve stare dove consente allo spettatore di scordarsi dell’attore. Bisogna avere l’umiltà di intuire ciò che dentro di sé possa essere utile a dare fiato e anima a ciò che è stato scritto da un autore dedicandovi tempo ed energie. Io sono più artigianale come approccio.

F.F.: Al di là dell’eclettismo, sei anche un “divo”, hai un’immagine che potrebbe prevalere?
P.F.: [scherza] Non mi sveglio la mattina dicendo: «Ricordati che sei un divo».
Da Sanremo in molti si sono accorti che Favino è poliedrico [lo dice con umiltà, ma anche la giusta dose di ironia]. Io ci sono sempre stato prima di Sanremo, che certo è stata una manifestazione che ha messo in evidenza. Non mi ritengo un divo. Penso di essere una persona che è riuscita a essere se stessa su quel palco. Di fondo c’è qualcosa che scappa a noi attori, sfuggendo al nostro controllo davanti alla macchina da presa ed è quello che che crea un legame di affezione col pubblico.

F.F.: Ti sei mai sentito ingabbiato in un’immagine?
P.F.: Dopo Romanzo Criminale ho ricevuto proposte più rotonde, ma ho preferito optare per La sconosciuta di Tornatore e Saturno contro con Ozpetek proprio per fare un imprinting differente.
Per quanto riguarda i ruoli delle donne c’è una responsabilità anche del nostro mondo femminile [e lo dice avendo una compagna e due figlie]. Non sono una persona che vuole che la propria moglie assomigli a una copertina di un femminile. Non mi pongo le ossessioni estetiche che lo stesso mondo femminile propone alle donne. Non dipende solo dall’uomo. Siamo circondati da cinematografie estere – se pensiamo a Nord Europa, ma non solo – che riesce a tratteggiarle; mi piacerebbe tanto che la donna, anche da noi, si riappropriasse della possibilità di raccontare il femminile – e lo dico stimando enormemente le donne. Nei due spettacoli che ho co-diretto con Paolo Sassanelli, “Servo per due” e “La controra”, le donne erano protagoniste.

F.F.: Puoi raccontarci qualcosa di questi due spettacoli…
P.F.: “La controra” purtroppo è nato e morto a Firenze, non ha fatto tournée. Si trattava della rivisitazione delle “Tre sorelle” dal ’47 al ’52, in un confine tra Puglia e Basilicata, evidenziando quel momento in cui tutto si sospende proprio in linea con lo spirito cechoviano. Vi era anche una connessione coi miei ricordi di infanzia (nonni pugliesi).
Sono cresciuto con la fortuna di non aver paura delle emozioni perché sono stato in mezzo alle donne e ho assistito e ancora oggi assisto a bocca aperta alla meravigliosa complessità del mondo femminile.

F.F.: Perché hai sentito il bisogno di lavorare a quattro mani?
P.F.: Tutto nasceva dall’idea di una compagnia, che purtroppo si è sciolta. Con Paolo c’era una visione diversa: lui ha un’anima più giocosa e inventiva, io più razionale, per cui ci compensavamo. In più, dovendo essere in scena, non puoi avere lo sguardo lucido su tutto. L’occasione che ci è stata data, soprattutto per Servo per due, da una grandissima produttrice che purtroppo non c’è più, Melina Balsamo, è stata una boccata d’ossigeno, un’esperienza unica.
Adesso sento il bisogno di distinguere tra quando sono in scena e quando dirigo.

F.F.: Un elemento rilevante per la versatilità è il trucco. Che rapporto hai con esso?
P.F.: Mi affido, ma partecipo. Quando realizzo Bartali per guadagnare giovinezza, cambiammo il colore delle sopracciglia dall’interno; invece, ad esempio, per Di Vittorio abbiamo utilizzato pochissimo trucco per l’invecchiamento, dando un peso diverso al ritmo del respiro.

F.F.: Hai preso parte a diversi progetti internazionali. Esiste realmente una differenza come si crede nell’immaginario comune?
P.F.: Muta la scala, esistono molte più persone che lavorano sui set 1h3′.
Viene data a tutti la possibilità di lavorare al meglio e c’è un’etica del lavoro diversa, essendo una cultura differente; ma non credo ci sia un talento superiore all’estero rispetto all’Italia. Abbiamo eccellenze enormi, vanno create le occasioni.
Va detto che da loro il pubblico è sempre in primo piano, ricordo che alla conferenza stampa de Le cronache di Narnia al regista fu posta la domanda sul valore simbolico di questo parto e lui spiegò di averla fatta pensando a chi avrebbe guardato. Questa cura verso gli spettatori è qualcosa che tengo sempre a mente.

F.F.: A proposito di opportunità, tu dirigi una scuola, L’Oltrarno…
P.F.: Sì, inizialmente sono stato titubante quando la Fondazione Teatro della Toscana me l’ha proposto, poi ho accettato a patto che venisse fatta in un certo modo: gratuita per chi la frequentasse e con insegnanti da tutto il mondo.
Si può dire che nella nostra tradizione o c’era l’attore che schiacciava il ruolo o il regista che ha in pugno la storia. Attraverso il supporto di soldi pubblici e privati mi sono adoperato affinché i ragazzi avessero una rosa di insegnanti internazionali perché i ragazzi si rendessero conto . Il limite era di sedici allievi, ne abbiamo selezionati undici – non c’è richiesta di quattrocento nuovi attori l’anno – che sono seguitissimi. Gli sto dando la formazione che avrei voluto ricevere.

F.F.: Pierfrancesco, torniamo ai tuoi impegni recenti, quant’è stato difficile proporre quel monologo a Sanremo?
P.F.: C’era un direttore artistico, Claudio Baglioni, il quale aveva carta bianca e lo ringrazio. Sembrava fosse capitato lì per caso, ma in realtà non c’era un elemento che non controllasse.
Nessuno mi ha detto non lo puoi fare, “La notte poco prima della foresta” è un testo del ’77 ed è su questo che mi interrogo visto che è stato ritenuto rivoluzionario un monologo di quarant’anni fa; senza contare il fatto di quanto sia così attuale.
Quando si è prospettato Sanremo, mi sono reso conto di come la mia paura non fosse la mia paura, ma legata a quello che avrebbero pensato gli altri e questo mi ha fatto arrabbiare. A quarantotto anni non posso accettare di avere paura che gli altri possano determinare ciò che sei tu.
Sei tu che determini se quella cosa ti ingabbia o se parla alla gente
Io sono nazional-popolare anche quando faccio Romanzo di una strage, l’importante è saperlo fare. Gassman non ha avuto timore di esibirsi a Canzonissima o se pensiamo anche a Mastroianni che ululava accanto a Mina e Tognazzi che raccontava barzellette. Nessuno di noi ha mai pensato negativamente di loro, anzi, li ha ammirati.

F.F.: Pensi di replicare l’esperienza di Sanremo?
P.F.: Penso che sia giusto che sia un’eccezione, ma sarei contento che lo facesse un mio collega.

Concludiamo con questa domanda dal pubblico:
Quanto l’errore può essere proficuo per l’attore?
P.F.: Tutta la preparazione che un attore fa è per prepararsi all’errore. Io so che entro in scena, quello che deve avvenire, ma non so come. Quando c’è un incidente in scena, accade davvero qualcosa. Se io impongo al personaggio la vita che io voglio che lui abbia, è come vedere un cane con la museruola e impedirgli di correre. Io non so come farò la cosa, io devo sapere perché la faccio e di che cosa ho bisogno per farla. Se succede sempre ciò che è atteso, è noiosissimo. L’errore è fondamentale, lo diciamo ai nostri allievi de L’Oltrarno: «non abbiate paura di sbagliare, non sia mai che voi sappiate tutto ciò che accade».
Tutto ciò che facciamo è per una domanda secca che il pubblico deve porsi: «e mo’, che fa?».

Maria Lucia Tangorra

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