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Wonder Boy

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VOTO: 8

SingaPop

Anni ’70. I Nuovi Angeli spopolavano in Italia cantando “Singapore / vado a Singapore / vi saluto belle signore“. Ma per restare in tema cosa accadeva allora, musicalmente parlando, nella stessa Singapore? Succedeva per esempio che l’esterofila dilagasse e che i cantanti locali, volendo usare un eufemismo, non fossero propriamente ben visti, soprattutto nei casi in cui non ci si limitava alle cover dei brani stranieri di maggior successo.
Non si trattava soltanto di questo, però: altri indizi di una dimensione culturale conformista e opprimente erano l’ostracismo nei confronti del rock e le azioni repressive, punitive, intraprese da insegnanti e poliziotti verso i cosiddetti “capelloni”, che poi in questo angolo del sud-est asiatico tendevano a differenziarsi dai coetanei ritenuti “in regola”, ironia della sorte, per frange e basette più lunghe giusto di qualche centimetro. E i raid della polizia raffigurati in Wonder Boy ci hanno ricordato, per certi versi, analoghe misure adottate più o meno nello stesso periodo in Unione Sovietica. Anche lì controculture giovanili e ragazzi coi capelli lunghi ghettizzati senza pietà. Come è emerso poi in un bellissimo documentario, Soviet Hippies, realizzato dopo lunghe ricerche dalla cineasta estone Terje Toomistu.

Il lungometraggio così elettrizzante, per quanto intriso a tratti di un sentire profondamente nostalgico, da noi visionato durante il Far East Film Festival 2018, non è comunque un documentario. Trattasi, anzi, di un biopic musicale di notevole freschezza e dai tratti decisamente originali; a cominciare dal fatto che è proprio l’artista di cui viene raccontata la storia ad aver diretto il film, caso in sé alquanto insolito, regalandosi pure verso la fine un toccante cameo! Al punto che verrebbe anche spontaneo riciclare il detto: “se la suona e se la canta da solo“.
Facezie a parte, un cantante apprezzatissimo in patria (e non solo lì: a un certo punto verrano menzionati anche i suoi successi in Giappone) come Dick Lee si è fatto coadiuvare in regia dall’altro film-maker Daniel Yam per realizzare un film musicale godibilissimo in tutte le sue componenti, da quella più intima all’indiscutibile valenza di manifesto generazionale, da quella sentimentale fino agli spunti più ironici e picareschi. Wonder Boy si configura all’inizio quale possibile clone del cult giapponese Linda Linda Linda, nel tratteggiare con toni agrodolci le tensioni adolescenziali relative al formarsi di una band scolastica, per cambiare poi direzione più volte, inglobando nel suo percorso drammatiche vicende famigliari, satira della Singapore più chiusa e bigotta, amor fou e tante altre tracce. Dick Lee, di cui abbiamo scoperto con enorme piacere l’accattivante produzione musicale, si è insomma ritagliato addosso un atipico biopic che strada facendo diventa accorato omaggio all’ambiente in cui è cresciuto, coi suoi aspetti teneri e con quelli più spigolosi, mescolati assieme così da conferire un ritmo avvincente alla narrazione. Tra belle canzoni e affioranti malinconie, una sorta di “Asian Graffiti” godibilissimo dall’inizio alla fine.

Stefano Coccia

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