Senza più voce
Per una volta si potrebbe partire dall’attrice protagonista, deputata ad interpretare Maria Callas nell’atipico biopic firmato da Pablo Larrain. Una scelta decisamente consapevole, la definiremmo; perché Angelina Jolie, in teoria, non potrebbe mai essere fisicamente la Callas ma lo diventa appieno con la forza dell’immaginazione cinematografica, simbolo di tempi sinistramente contemporanei dove il glamour diviene merce da vendere e l’apparenza un totem prima da esaltare poi da abbattere.
Insomma un biopic non-biopic al femminile che segue inevitabilmente la scia degli altri due, ovvero Jackie (2016) e Spencer (2021), dove la parola d’ordine rimane trasfigurazione, esulando dalla realtà per approdare ad un mondo personale, talmente intimo da apparire come riflesso simbolico di una coscienza che non è solamente di proprietà del personaggio principale ma diviene patrimonio universale. Problematiche comprese.
In Maria, allora, assistiamo alla parabola discendente della divina Callas, mentre la popolarità viene rievocata in efficaci flashback che profumano di un passato brillante ma dal sapore ormai stantio. In sostanza Larrain, come già fatto altre volte in carriera, realizza un epitaffio amarissimo ma al contempo ad alto tasso emozionale, lasciando completamente spazio al punto di vista del personaggio tra rimpianti e deliri (da farmaci). In pratica un percorso circolare alla ricerca di una fine che possa lenire cicatrici vive e dolorose, tanto più che il lungometraggio inizia, quasi fosse un’opera lirica, con l’atto finale del dramma, cioè la morte di Maria Callas stessa. Poi veniamo a conoscenza di tutto il resto. Della commovente dedizione del factotum Ferruccio (finalmente un bel ruolo per Pierfrancesco Favino) nell’assistere la diva e sorvegliare sulla sua salute assieme alla cuoca Bruna (un’incisiva Alba Rohrwacher). Ai tentativi disperati della Callas di recuperare sprazzi di quella voce in grado di incantare il mondo intero ma da tempo ridotta all’ascolto di vinili che riecheggiano trionfi lontani in templi dall’aura mistica. Oppure la forza di innamorarsi di nuovo, lei che ha amato un solo uomo, quell’Aristotele Onassis capace di farle da padre-amante anche se completamente disinteressato alla musica lirica. Poi l’incontro con il presidente John Fitzgerald Kennedy, che crea un curioso punto di contatto con un altro biopic molto atipico e mal interpretato da pubblico e critica quale Blonde (2022) di Andrew Dominik, con un altro simbolo come Marilyn Monroe a fare da cavia sessuale in una società maschilista fino all’eccesso. E senza possibilità di correzione alcuna.
Il pubblico dunque si trova immerso in qualcosa a metà tra la ricostruzione storica e la proiezione personale di ciò che è stato e che magari sarebbe potuto accadere alla protagonista, se le scelte fossero state differenti. Un cinema che assieme stimola e respinge. Un cinema che chiama lo spettatore, a propria volta, all’interpretazione attiva. Forse troppo per la pigrizia intellettuale dei giorni nostri, quelli in cui si corre a perdifiato e si pensa il minimo indispensabile. Probabilmente un’opera come Maria nasce anche dal desiderio di fermarsi un poco, a cercare di comprendere cosa siamo stati. Un discorso che vale, a pari livello, per una diva come la Callas e per un qualsiasi, “normale”, essere umano. Entrambi supportati dal cinema unico, in prodigioso equilibrio tra empatia umanista e satira sferzante, di Pablo Larrain.
Daniele De Angelis