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Erant – Un racconto di leggende valdostane

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VOTO: 8

Dalla Valla d’Aosta con folklore!

Per anni l’immaginario cinematografico italiano legato alle Alpi, alle alte vette dell’Italia settentrionale, ha fatto rima più facilmente con qualche ridanciano “cinepanettone”, sconfinando di rado in altri territori. Ma quando lo ha fatto, vedi certo cinema di Ermanno Olmi e dell’allievo Mario Brenta, come pure Il vento fa il suo giro stupefacente esordio cinematografico di Giorgio Diritti o il più recente Vermiglio, ci si è potuti confrontare con poetiche di inusitato spessore. Un altro “sentiero” (non necessariamente montano) che ci piace seguire è quello del cosiddetto “folk horror”, filone impostosi negli ultimi anni all’attenzione degli appassionati, non solo in Italia, ma che per il cinema di genere prodotto dalle nostre parti ha rappresentato, forse più che altrove, una salutare boccata d’ossigeno. Aria fresca di montagna, nel caso di Erant – Un racconto di leggende valdostane, cortometraggio in concorso al Monsters – Fantastic Film Festival 2024, presentato a Taranto in una “tranche” ribattezzata emblematicamente Lanscapes. Ed i maestosi paesaggi alpini, nel fiabesco per quanto truce lavoro cinematografico di Enrico Granzotto, una loro rilevanza ce l’hanno senz’altro. Per circoscrivere ancora meglio l’ambito narrativo, peschiamo a mani basse in alcune note di produzione alquanto esplicative: “Basato su fonti storiche e testimonianze orali, Erant esplora l’immaginario folcloristico della Valle d’Aosta interpretando in chiave orrifica tre leggende tramandate dalla tradizione popolare valdostana. Il progetto si realizza sul territorio regionale valorizzando paesaggi rurali, e segue le storie drammatiche di tre figure femminili — una ninfa, una pastorella e una contadina — fra folclore e tragedia.”

Per essere ancora più precisi, una didascalia posta all’inizio del film ci avverte che le leggende in questione sono state tramandate oralmente in lingua francoprovenzale. E questo importante dato linguistico-culturale ci riporta subito al fascino esercitato a suo tempo, sugli spettatori più sensibili a tale ricerca, dal summenzionato Il vento fa suo giro, lungometraggio parlato in lingua italiana, occitana e francese il cui titolo riprendeva per l’appunto un vecchio proverbio occitano.
Per quanto concerne Erant, invece, il cortometraggio rappresenta anche l’esordio cinematografico di Granzotto, film-maker la cui formazione già dice molto: laureato all’Università Ca’ Foscari e IUAV di Venezia, costui è di base direttore creativo specializzato in intrattenimento immersivo e narrazione transmediale, nonché fondatore di Vault, studio di comunicazione basato in Valle d’Aosta.
Gli elementi localistici e la cura dell’elemento spaziale sono quindi i tratti fondanti di un rapporto con il linguaggio audiovisivo, che pesca nella Tradizione calandola poi alla perfezione nel suo ambiente naturale, sia esso rappresentato da cime e ampie vallate o anche dall’interno in penombra della classica baita, dove tra l’altro troneggia imperioso un gufo. Il classico esercizio di storytelling che ne consegue vede coinvolti un anziano dal volto magnetico (il narratore) e un pastorello dai tratti angelici (l’ascoltatore), mentre i contenuti delle fiabe, in linea con una radicata tendenza della narrativa popolare europea che abbina al macabro atavici insegnamenti morali e moniti severi, hanno in comune creature soprannaturali che è meglio non provocare, rispetto per le consuetudini più antiche e qualche regola (ad esempio, come bere l’acqua di un ruscello) valida in particolare per il contesto montano. Riuscendo ogni volta a ricreare l’atmosfera giusta, con pochi e semplici tocchi per tratteggiare l’elemento fantastico, l’autore permette al pubblico di calarsi in tre favole oscure che hanno sempre un personaggio femminile, al centro della storia. E una certa eleganza, oltre che nell’ottima fotografia, l’abbiamo riscontrata anche nella separazione dei tre capitoli, affidata a uno sfondo scuro e ad asterischi che possono persino ricordare stilizzati fiocchi di neve. La parola passa perciò di diritto al cantastorie: “Ora ammira il mondo che non vediamo”.

Stefano Coccia

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